Rossana
Noi che scriviamo abbiamo i mostri dentro, mi dice l’amico scrittore. E io penso a Rossana. Non alla donna amata da Cyrano, non alla caramella dolce ma non troppo, dura fuori e morbidamente densa dentro, avvolta dalla carta rosso antico. Penso a Rossana Campo, la scrittrice che mi ha accompagnata nel lutto per la perdita di mio padre, con il suo bellissimo “Dove troverete un padre come il mio” (Ponte alle Grazie), l’autrice che mi ha fatto ridere e piangere nella favola “Catì” (Bompiani), nella storia personale di illuminazione buddista “Felice per quello che sei. Confessioni di una buddista emotiva” (Mondadori), nelle storie dei suoi personaggi femminili che parlano cuore a cuore, come le mie amiche. Ma soprattutto penso a colei che mi ha rimesso in mano la penna, la punta della quale avevo bisogno, quella per estrarre il non detto, che vuole emergere, deve venire al mondo perché possa sentirmi vera. Rossana Campo è un’ostetrica speciale che, nei suoi Laboratori di scrittura autobiografica, assiste storie di rinascita nella scrittura, ognuna unica, ognuna un po’ come la mia. Perché è così che tutto è cominciato per me, o forse è meglio dire ricominciato. In classe si fanno esercizi basati sui suoi stimoli con una totale libertà. “Scrivete quello che viene di getto”, dice spesso Rossana. Aprite i rubinetti, percepisco io, lasciate scorrere l’acqua dalla fontana, come dall’orlo di una cascata. Buttatevi. Ma come? Sembra facile a dirlo, ma qual è il segreto?
Tempo fa sono entrata in un negozio di penne, più che altro stilografiche, di quelle antiche ma ancora attuali, adattate alla vita moderna, da chi le progetta e ne cambia le forme, i colori, ma non il contenuto, un canale per l’inchiostro e un pennino a punta. Ho chiesto un consiglio alla proprietaria, mostrandole la mia stilo che, cadendo aveva accusato un colpo alla punta. “Il problema è il lavaggio. A volte basta solo lavare la penna, ogni tanto va fatto. Provi ad aspirare acqua e svuotarla varie volte per ripulirla e inserire inchiostro nuovo. Se il difetto persiste allora torni e cambiamo il pennino, la punta, ma così a occhio mi sembra ancora buona”. D’altra parte le penne stilo si chiamano in inglese “fountain pen”, mi ha ricordato una volta un amico. La signora ha fatto una prova sul foglio e io sono uscita confortata sulla salute della penna. E quindi sulla mia salute, perché senza la penna non sto tanto bene, mi manca, ne ho bisogno, mi può mancare tutto ma non la penna. Prima della caduta non mi ero resa conto quanto fosse diventata di nuovo parte di me, della mia vita, del mio stare al mondo, del mio avere un senso nel mondo. Quel senso che ho ritrovato, avendolo perso per anni, frequentando il primo laboratorio di scrittura autobiografica con Rossana. È stata lei che, con gentile fermezza, mi ha rimesso in mano la penna, la bussola che avevo perso. Dopo il primo ne ho frequentati altri due, livelli sempre più approfonditi, strutturati dalla scrittrice/maestra, per sollecitare la scrittura come una forma di autocura. I suoi stimoli sono stati per me una chiave per aprire la serratura del ponte levatoio che avevo alzato rispetto allo scrivere. Grazie a lei l’ho abbassato lentamente e ho permesso alla penna di guidarmi all’interno di una fortezza che avevo protetto per anni, nell’illusione di difendermi da mostri e fantasmi che percepivo erroneamente come esterni a me.
Chi scrive lo fa spesso per affrontare le proprie zone oscure. La letteratura è piena di romanzi autobiografici, tanto veri quanto più le autrici o gli autori vanno a fondo del loro animo, lasciando parlare i fatidici fantasmi che in genere si preferisce tenere nascosti. Anche io ho i miei mostri personali e, prima di incontrare Rossana, avevo iniziato un percorso di analisi per affrontare il ‘toro per le corna’. La terapia mi ha aiutata a ribaltare la prospettiva su questo tema così da spingermi a illuminare e accogliere il mostro anziché combatterlo. Nell’oscurità lo vedo come un volto austero, rigido, privo di vita come quello di una salma, inespressivo, giudicante, silenzioso, muto, inamovibile e soprattutto gigantesco. Quando lo illumino, riconosco che si tratta solo di un’ombra e, come tale, prende la forma del modo in cui mi pongo di fronte a un muro o a un ostacolo. La penna è la luce che mi permette di guardare in faccia queste ombre. Di trovare “Le parole per dirlo” (Bompiani), come nel titolo della magnifica autobiografia di Marie Cardinal, nella quale la scrittrice francese racconta la sua storia di rinascita attraverso un percorso di psicoanalisi. Della malattia mentale e dell’ossessione per le parole la Cardinal scrive: “Una piovra. Per i malati mentali, le parole hanno una vita propria, come la gente o gli animali. Possono palpitare, svanire o amplificarsi. Passare attraverso le parole è come camminare in mezzo alla folla. Rimangono delle facce, delle sagome che si dileguano presto nel nostro ricordo, oppure vi si fissano, non si sa bene perché. In quel periodo, estraevo una parola dalla massa delle altre parole, ed essa cominciava ad esistere, diventava una cosa importante, forse la più importante e mi abitava, mi torturava, non mi lasciava più, mi appariva nel sonno e mi aspettava al risveglio. (…) Capivo che le parole potevano essere amiche o nemiche, ma che in ogni caso mi erano estranee. Erano strumenti messi a punto da molto tempo, di cui disponevo per comunicare con gli altri. (…) Le parole erano astucci, tutte contenevano una materia vitale. Le parole potevano essere veicoli inoffensivi oppure macchine variopinte da autoscontro che si urtavano nella vita quotidiana provocando scintille che non ferivano. Potevano essere particelle vibratili che animavano costantemente l’esistenza oppure cellule che si fagocitano, globuli che si coalizzano per ingoiare avidamente i microbi e respingere invasioni estranee. Potevano essere ferite o cicatrici di ferite, potevano somigliare a un dente marcio in un sorriso di gioia. Potevano essere giganti, rocce ancorate solidamente alla terra, grazie alle quali si possono attraversare torrenti in piena. Le parole infine potevano essere mostri, ss dell’ inconscio che rinchiudono i pensieri dei vivi dentro le prigioni dell’oblio. Ogni parola che faticavo a pronunciare nascondeva in realtà un territorio nel quale rifiutavo di entrare. Ogni parola che dicevo con piacere designava al contrario un territorio che mi piaceva. Era quindi evidente che desideravo l’armonia e rifiutavo gli escrementi.”
Gli esercizi di Rossana Campo, basati su stimoli di vario tipo, con l’unico requisito per i partecipanti di scrivere a mano, seguendo l’impulso del momento, senza filtri, senza obiettivi, senza preconcetti o pianificazioni di sorta, sono stimoli potenti per andare avanti da soli nel proprio labirinto interno e “scavare”, come dice Rossana, “andare a fondo”, accedere a quel “vero” che è in noi e che rende la letteratura universale.
Una penna in mano e un foglio sono bastati per accorgermi quanto mi fosse mancato il mezzo espressivo del diario scritto a mano, che avevo utilizzato fin da bambina. Era per me un’abitudine liberatoria, e l’avevo persa per gradi, senza accorgermene, trascorrendo sempre più tempo al computer, se e quando dovevo scrivere qualcosa. Ho sempre scritto e ho anche studiato per scrivere e lavorato con la scrittura, ma a un certo punto della mia vita me ne sono allontanata. Come donna, fisica, divulgatrice, madre, imprenditrice di un’azienda agricola, proprietaria e tuttofare di un agriturismo, tra i figli piccoli, la campagna, i compiti burocratici e amministrativi, tra tutte le operazioni in parallelo che noi donne ci troviamo ad affrontare, l’ausilio del computer sempre presente, semplice e immediato, non mi dava quel tempo, né quell’immediatezza necessaria, per ascoltare la parte più profonda di me. E il diario scritto a mano avevo finito per abbandonarlo, non trovavo più il tempo. Eppure ne avevo accumulati di diari: taccuini, custodi di idee, progetti, estratti di storie mai scritte, annotazioni di paragrafi di libri che non volevo dimenticare. Li conservavo in una scatola di legno pesantissima, chiusa a chiave, parte di un passato nel quale volevo fare la scrittrice. Quasi sempre erano stati i diari a dare vita ai miei progetti, essendo un modo per annotare, appuntare, fermare sulla carta parole, concetti, idee, che così spesso attraversano la mente e svaporano in un battibaleno. Oppure, come ho riscoperto seguendo la guida di Rossana e partecipando ai suoi esercizi, la scrittura nei diari mi aveva permesso per anni di guardare in faccia i miei mostri, le mie zone oscure. Mi aveva fornito una terapia costante, una cura imprescindibile per la mia stessa vita. “Prendete la penna in mano e il foglio. Niente computer, solo la punta di una penna tra le mani, la carta e sette (o dieci) minuti”, è la frase di Rossana per accordare tutti. Da quel momento in poi la scrittura prende il via e il risultato è un concerto di voci accordate sul la del vero che è in noi.
Bellissimo
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