VOLUTE
Qualche anno fa, era dicembre 2020, mi sono seduta a scrivere di fronte ai dipinti di Caravaggio a San Luigi dei Francesi: S. Matteo e l’Angelo e la conversione di Matteo, chiamato da Gesù dal tavolo degli esattori.
Sono tornata alla Cappella Contarelli con una delle mie classi, guidata dalla collega di arte, ma i quadri non erano visibile, la cappella dietro impalcature di lavori di restauro, come lo è tutta Roma in questo autunno pre Giubileo, chiusa per lavori. E noi che la viviamo, siamo a disagio, ma andiamo avanti, ci sediamo, e osserviamo i pannelli, appoggiati su una parete laterale, blando surrogato dei quadri che avremmo voluto vedere: quello centrale, sull’altare della cappella, dove un Matteo ispirato dall’Angelo scrive i Vangeli e quello laterale, la vera conversione di Matteo, dove la diagonale di luce della mano divina chiama a sé un giovane assorto a contare soldi, oppure illumina un volto già orientato a seguire Gesù. Le ombre e la luce, che formano le figure caravaggesche, possiamo solo immaginarle, o ricordarle.
È così che mi torna alla mente la parola volute e quello che ne avevo scritto sul mio diario: “Volute è la parola che affiora mentre siedo a osservare il movimento statico dei due drappeggi dell’Angelo guida di Matteo. Sono ali, squarci nel buio dell’insondabile, dai quali emerge la luce di un corpo essenzialmente umano, proteso a illuminare il viso di Matteo, che si volta, e sembra guardare, più che il volto, le mani e le dita dell’essere angelico e corporeo.
Perché, mi chiedo, lo sguardo rimane intrappolato nelle dita? Sono volute quelle dita attrattive? O è solo il mio occhio a rimanere catturato dalle mani che rendono circolare, centripeta, la forza di attrazione dell’immagine? Quanto sono volute le caratteristiche che rendono un’opera universale? Quanto c’è di profondamente mistico e inspiegabile nel particolare che contiene il tutto e ne è contenuto? Non credo siano volute le volute che ascendono. Semplicemente sono, esistono, a prescindere da qualsiasi volontà. Come è, esiste, lo sguardo di un uomo rapito dal mistero di una possibilità di redenzione, di guardarsi dall’esterno e trovare in sé la luce inaspettata nel buio della propria esistenza.
Siedo. La cappella giace nel buio. Non ho mai fatto prima questo: scrivere di fronte a Caravaggio, per esplorare dove il filo di inchiostro mi conduce. Attendo, non ho più monete per illuminare la cappella. Forse qualcuno arriverà ad accendere la luce, per un minuto, due, forse tre minuti di tempo concessi per respirare l’assoluto di una storia umana che ne contiene tante, tutte, volute che si elevano con la naturalezza del respiro caldo, in un grigio mattino, freddo, di primo inverno.
Anche nel buio lo squarcio circolare del drappeggio illumina il volto di Matteo, resta impresso nella retina, come quando guardi incautamente il sole e, chiudendo gli occhi, ritrovi il disco troppo luminoso per lo sguardo reso cieco.
Allora provi a voltare lo sguardo, orientarlo altrove. E, in questo istante in cui scrivo e ricordo ciò che ho appena visto, la luce si accende e si posa sul volto di uno dei giovani seduti al tavolo del secondo quadro, un ragazzo, il suo sguardo rapito, non velato dalle ombre del tempo, lo sguardo che crede nell’impossibile, nelle infinite strade ancora tutte da percorrere. Guardo la scena tutta ma anche qui mi fermo sul dettaglio di una piuma che rende il tutto mobile, volatile, leggero, al di là della pesantezza di quei corpi seduti, assorti, concentrati, attorno al tavolo dove girano soldi, dove tutto è troppo voluto. Quella piuma è il centro verso cui la forza di attrazione questa volta mi guida. Sarà voluta nel suo essere una voluta anch’essa? Torna il buio mentre oscillo da una prospettiva all’altra. E il terzo quadro diventa l’apoteosi di questa circolarità spiraleggiante che guida lo sguardo e lo attrae verso il centro dal quale tutto è equidistante, tutto si abbraccia, tutto è visibile, nell’oscurità quanto nella luce”.