Circolarte
Fai il tappo mi ha detto una volta mia madre. Galleggia, l’onda passa e tu fai il tappo. Non c’è bisogno di contrastare la corrente, credo volesse dire, seguila, lasciati trasportare dall’onda. La parola onda me la regalò oltre un anno fa un marinaio (che poi io lo chiamo marinaio anche se in realtà è uno skipper!), incontrato a Baratti. Si chiama Dafne, e allora ne scrissi, ben sapendo che la parola non era finita, era un impulso, una perturbazione, che avrebbe seguito un suo corso al quale affidarmi. Da allora, da quell’incontro denso e inaspettato sono piovute tante parole nel mio ombrello, a volte sono riuscita a restituirle, altre volte le ho lasciate lì, a fermentare credo, a sedimentare. Avevo bisogno di un luogo dove consegnarle, non lo sapevo, ma era evidente che ne avessi bisogno, tanto evidente che il posto si è materializzato come in sogno.
Il posto è nello spazio di un borgo di nome Tatti, nel quale si è incagliata la prua di una nave, dal nome Circolarte Tatti, o Circolo Arci Tatti, o ancora Circolino. Questa nave non solcava oceani, ma una terra di pietre e di paesi, dai nomi legati ai massi, alle rocche, ai sassi, alla pietra appunto, nel cuore della Maremma. E ora è spiaggiata, sulla soglia all’incrocio di due vie, e veleggia tra le onde del tempo grazie alla Pergola del Circolino, un tetto di vite di uva fragolina, che ha ospitato il mio ombrello per una sera. Ho portato lì alcune parole, le ho rilanciate in quell’angolo di un sogno, nel tempo di una chiacchierata tra amici, ricevendone altre in dono.
Il Circolo Arci Tatti esiste da molto tempo, ma durante la pandemia stava per soccombere, per chiudere i battenti e ammainare le vele. Per caso o per fortuna, una ‘armatrice’ di nome Cristina, nella realtà la creatrice di DocuDonna (International Documentary Festival for Female Filmakers) e un ‘marinaio’ di nome Dafne, in realtà capitano di barche a vela ma di quelli che non ti mettono in soggezione, hanno deciso, assieme a un gruppo di altri visionari, di salvarlo e trasformarlo. Lo hanno reso un luogo dove accogliere libri, quindi persone che scrivono e leggono, quindi parole, custodite nella piccola ma densa biblioteca, parte integrante di un bar colorato, aperto a chiunque si trovi a passare da quelle parti. È stato Dafne a invitarmi a portare l’ombrello lì per una sera. Ne è nata una chiacchierata sulle parole che ho sentito importanti in questo ultimo anno. Parole intrecciate dai miei nodi, per legarle alla rete dei presenti. Le riporto qui, per chi c’era e chi non c’era, con i libri dai quali le ho acchiappate.
La parola MAPPE mi è arrivata tempo fa dalla video-intervista intitolata La precisione della poesia, a Chandra Livia Candiani, scrittrice di poesia, che leggo e ascolto, per ridefinire le mie mappe oppure trovarne di nuove: “Mappa è una parola che mi sta a cuore”, dice la scrittrice “perché io sono cresciuta senza mappe, perché vengo da una famiglia di pazzi, in senso proprio letterale, clinico. La mia mamma era malata di mente e quindi non mi ha dato mappe, se non delle mappe così vaghe, larghe anche, molto vacillanti, per cui ho dovuto farmi fin da bambina delle mappe tutte mie. Per esempio a scuola c’erano cose che non capivo e non capivo perché dovessero essere così, come per esempio uno più uno che faceva due. Mi sembrava che uno è uno, e un altro è un altro, e non poteva mai fare due, poi ho trovato una mappa che era chiedere alla mamma: “ma mamma è una cosa fissa… quella?” E lei diceva, “Sì, è fissa”. E allora io accoglievo che a uno più uno si doveva dire la parola due.”
Dal suo libro “La bambina pugile ovvero la precisione dell’amore” (Einaudi), ho tratto la poesia:
Mappa per l’ascolto
Dunque, per ascoltare
avvicina all’orecchio
la conchiglia della mano
che ti trasmetta le linee sonore
del passato, le morbide voci
e quelle ghiacciate,
e la colonna audace del futuro,
fino alla sabbia lenta
del presente, allora prediligi
il silenzio che segue la nota
e la rende sconosciuta
e lesta nello sfuggire
ogni via domestica del senso.
Accosta all’orecchio il vuoto
fecondo della mano,
vuoto con vuoto.
Ripiega i pensieri
fino a riceverle in pieno
petto risonante
le parole in boccio.
Per ascoltare bisogna aver fame
e anche sete,
sete che sia tutt’uno col deserto,
fame che è pezzetto di pane in tasca
e briciole per chiamare i voli,
perché è in volo che arriva il senso
e non rifacendo il cammino a ritroso,
visto che il sentiero,
anche quando è il medesimo,
non è mai lo stesso
dell’andata.
Dunque, abbraccia le parole
come fanno le rondini col cielo,
tuffandosi, aperte all’infinito,
abisso del senso.
L’ultimo libro della Candiani è in prosa, ma la sua scrittura è poesia anche quando non sembra. Si intitola “Questo immenso non sapere” (Einaudi), e la parola catturata da questo libricino, piccolo ma densissimo, è ERRORE: “Senza energia dell’errore non si procede, si resta spiaggiati. È ritrovando la possibilità di errare che si riparte, ma non si può fabbricarla, occorre lasciarla arrivare, occorre togliere gli ostacoli: il confronto, il giudizio su di sé, il voler compiacere gli altri, l’ambizione mondana. Partire soli, andare errando, scoprire nuove energie grazie all’errore. (…) Non vale solo per la scrittura, ma per qualsiasi percorso senza orme da ricalcare, per qualsiasi camminare che sia senza cammino prestabilito, perché ogni passo è la meta, esitando, sostando. Una via che si disfa mentre la si percorre per lasciare a ognuno la libertà e il rischio di fare di sé una strada”. L’errore come carburante per la creatività per l’intuizione di qualcosa di nuovo, di rivoluzionario, l’ho collegato alla parola SOGLIA che è il titolo della raccolta di poesie di Simona Possenti (Bertoni Editore), della quale ho già scritto. Che poi SOGLIA si prestava benissimo a rimanere in questo circolo, un presidio soglia, non solo ‘barrino’ né solo ‘circolino’, in un luogo che non è solo paese né solo pietre a costruire case, un riparo che accoglie i libri e le parole che li formano, che coglie il senso dello scrivere e lo rende poesia. Un po’ come la poesia della definizione che Dafne mi regala del vivere in mare: è uno stare sulla soglia, altitudine zero, soglia tra mondo emerso e mondo sommerso.
La parola API l’ho acchiappata da uno dei libri di Maja Lunde, scrittrice norvegese edita in Italia da Marsilio Editore. La Lunde l’avevo ascoltata parlare alla Buchmesse di Francoforte nel 2019, in tempi ormai lontani e precedenti alla cesura del COVID. Di origini norvegesi, affermata scrittrice di libri per ragazzi e sceneggiatrice televisiva, raccontava di aver sofferto, fin da ragazzina, di attacchi di panico causati dall’ansia per lo stato dell’ambiente, per il problema del cambiamento climatico e del futuro della vita. La scrittura l’ha aiutata a esorcizzare le paure, diventate la spinta per il suo romanzo distopico che narra di un mondo senza api. “La storia delle Api” è il primo volume di una quadrilogia dedicata al tema del cambiamento climatico. Sono seguiti “La storia dell’acqua“, e “Gli ultimi della steppa“, dal problema delle risorse idriche a quello dell’estinzione di una specie, una rara razza di cavalli, metafora della nostra stessa estinzione. La domanda intrinseca a queste narrazioni è se sia possibile che anche una sola vita umana possa cambiare il mondo per tutti. Forse non ci sarebbe bisogno di chiederselo o di rispondere, se ognuno di noi se la ponesse sul serio questa domanda. E se l’intenzione vera e radicata fosse di non procrastinare le azioni, anche piccole, volte a riparare il danno, a correggere l’errore.
La parola PROCRASTINAZIONE me l’ha regalata Martina, seduta in ascolto al circolino di Tatti. La raccolgo e mi porta all’ultima parola che poi era anche all’inizio, ERRORE, questa volta nel senso di errore di misura, in fisica come nelle altre scienze esatte. Come ricorda il fisico Premio Nobel Giorgio Parisi, quando parla ai giovani del senso della sua ricerca, le scienze esatte non sarebbero tali senza la consapevolezza che ogni misura è soggetta a errore. Il libro di Parisi, “In un volo di storni” (Rizzoli), ha chiuso il cerchio intorno all’ombrello, mi ha fatta tornare alle mie corde, alla fisica e a uno scienziato capace di parlare ai giovani dell’importanza dell’errore e del dubbio, dimostrando di essere presidio umano di una qualità di vitale importanza, l’umiltà.
Conoscere il Circolino di Tatti è stato come entrare in un sogno, un sogno denso di parole care da custodire in un acchiappasogni. Ero partita con l’idea di svuotare l’ombrello, delle parole ancora rimaste tra i suoi raggi, ma altre sono piovute all’interno, grazie alla compagnia dei frequentatori del Circolarte. La parola COMPAGNIA me l’ha regalata Rio, adolescente generoso e ospitale, nel momento sempre difficile dei saluti. La PRIMAVERA, in questa estate caldissima, l’ho catturata da suo fratello Brando, che la recitava come un mantra mentre ne scandiva le sillabe con note ripetute al pianoforte. Come nei bei sogni, dai quali ci si sveglia e si vorrebbe tornare all’inizio, la parola che chiude senza chiudere, con la quale vorrei salutare con un arrivederci coloro che sostengono il Circolarte di Tatti, è PALINDROMO, declinata da Roberto a fine serata in frasi che non hanno un verso (e forse nemmeno un senso), ma come le leggi le leggi va bene lo stesso:
o sole geloso
e sera Vai a Varese
angolo Bar a Bologna
i topi non avevano nipoti
Grazie Circolarte di Tatti, di presidiare quella soglia, dove immaginare un mondo possibile rende i sogni realtà e la realtà sogno.