Aggrapparsi
“Aggrappato alla memoria”, scrive il giornalista Nicola Maranesi nel giorno della Memoria. Commenta così la foto di un abbraccio tra lui e Piero Terracina, che ha ricevuto il Premio Città del Diario 2018: “Aggrappato alla memoria. Aggrappato. In questa foto con Piero Terracina non lo abbraccio, mi aggrappo a lui”. La foto è di Sam Webster, scattata il 16 settembre 2018 a Pieve Santo Stefano, il giorno in cui Piero Terracina donava una versione inedita e completa del racconto della sua deportazione ad Auschwitz. Che l’Archivio di Pieve, con il quale Maranesi collabora, ha ora in custodia per conservare il ricordo di uno dei sopravvissuti tra gli ebrei italiani deportati.
Trovo questa immagine pochi giorni dopo aver perso mio padre, e la parola aggrappato mi cattura e mi presta un appiglio, una maniglia. Continua Maranesi, parlando di Piero Terracina, che fu deportato e perse tutta la sua famiglia il giorno stesso dell’arrivo ad Auschwitz-Birkenau: “È stato faticoso per questo uomo grande arrivare fino in alta Valtiberina per portare ancora una volta, a voce, la sua testimonianza. E non sono mancati momenti di preoccupazione per le fatiche accumulate. Poi è salito sul palco e la piazza si è alzata in piedi per tributargli l’applauso più lungo e sentito. Poi ha raccontato nel silenzio di bambini e anziani la sua testimonianza. E allora l’abbraccio, anzi l’aggrappo, ecco il significato che ha. La felicità di averlo reso possibile, il privilegio di poter ascoltare ancora dalla voce di chi l’ha vissuto, la promessa di continuare a ricordare”.
A cosa ci si aggrappa quando manca la terra sotto i piedi?
A una nuvola forse?
Quando un padre, la radice, ci lascia e diventa cenere, cosa ne è di noi rami e di noi foglie?
E sa la nuvola non ci presta un appiglio mentre cerchiamo di afferrare l’inafferrabile?
Cosa ci impedirà di sprofondare nel nulla? Nel vuoto dove prima c’era terra e ora non c’è suolo?
Per un attimo siamo leggeri come piuma al vento, per un attimo, ma poi quel vento dove ci porterà?
Per un attimo siamo sbalzati nello spazio oltre l’atmosfera, non abbiamo peso, oltre le nuvole, vaghiamo leggeri, volatili ci disperdiamo e invadiamo ogni spazio trasformati in una non forma.
Siamo ancora noi senza terra sotto i piedi?
Riescono le nostre particelle a rimanere aggrappate a se stesse, a non svaporare?
Scrivevo molti mesi fa: “Penso a svaporare e ritrovo una cantina, un luogo buio, una vecchia stanza dalle mura di pietra, dove entrano solo i grandi, gli adulti, quando vanno ad attendere il mosto che si trasforma in vino, o entrano a prendere una bottiglia di rosso, lasciata lì al fresco, o passano i pomeriggi a travasare, imbottigliare, dalla damigiana dove è inserito un tubo fino di gomma, dal quale aspirano per ricevere in bocca quel primo sorso di vino, e poi calano in fretta il tubo nel collo della bottiglia, e la riempiono con il liquido vermiglio che cade dall’alto, per sola pressione, senza sforzo, a occupare il vuoto che lo attende.
In questa cantina svaporare è la norma. Succede al vino se ci si dimentica di tapparlo per bene, o se non si mette l’olio prima di chiudere la damigiana, o se il tappo di sughero è difettoso. Succede al vinsanto messo lì a invecchiare, ma che a volte è troppo vecchio e allora addio aroma, addio profumo, addio sapore zuccherino, mentre mordi un tozzetto, un cantuccio alle mandorle, uno di quei biscotti secchi e duri che immergi nel liquido alcolico per ammorbidirlo quanto basta da scioglierlo in bocca, assaporando quel gusto di uva lasciata a seccare al sole, prima di trarne un nettare santo e dolcissimo.
Tutto è vivo nella cantina, tutto si trasforma: l’uva ribolle, il mosto fermenta, il vino emerge, denso degli aromi che il sole, il vento, la pioggia, la rugiada, la nebbia, la neve, l’arsura estiva, la brezza, le albe e i tramonti, la mano del contadino, delicata e forte, pronta alla cura, il suo alito, il suo sguardo vigile, hanno distillato nei grappoli e in ogni acino, pronto a cedere le sue ricchezze al composto che diventerà vino, liquido divino, bevanda degli dei e del sacro che è in noi.
Anche gli umani svaporano nella cantina, entrano densi, condensati, con in testa mille pensieri bassi e pesanti, veloci nei movimenti, accendono la luce con l’interruttore in alto a destra del grande portone, fuori dalla portata dei bambini, e si mettono al lavoro, in due, in tre alla volta, e si passano i compiti, assaggiano, e con ogni sorso diventano più leggeri, nel corpo, nel cuore e nell’anima.
È così che la mente svapora, si disperde in particelle fluttuanti che si uniscono agli effluvi del vino nuovo, vivo, frizzante, agitato, euforico, ansioso di donarsi, di essere assaggiato e approvato da quei palati assetati, lieto di istillare in quei corpi la trasformazione delle membra stanche. Chi entra nella cantina, comunque arrivi a varcarne la soglia, ne uscirà felice, rigenerato, alleggerito, un po’ traballante forse, perché la leggerezza penalizza a volte l’equilibrio, che si ritroverà insieme, in compagnia di amici veri e presunti, amici di lavoro, di bevute e di confidenze che solo il buon vino può stimolare.
Nella cantina è sconsigliato entrare soli perché cadere è duro sempre, ma da soli fa più male. Meglio essere in compagnia, ché le risate insieme si stimolano, si arricchiscono e regalano attimi che valgono una vita intera. E poi da solo rischi di perderti e non ritrovarti mai più, perché nessuno è lì a trattenere le tue particelle in fuga. Oppure finisci per svenire anziché svaporare, perché hai respirato troppo a lungo l’anidride carbonica che viene da tutto quel fermento di uva. E se svieni e cadi, non avrai coscienza di quanto è piacevole lasciare andare le parole, lasciarle correre e inciampare negli sguardi un po’ brilli che trasformano gli animi, distillando in noi le risate, come solo tra amici. Non è forse il semplice fatto di esistere per gli amici cari, quello che rende degna la vita?
Solo che poi succede che qualcuno che amiamo ci lascia, svapora forse, non è più del nostro universo. E mi ritrovo bambina, a cinque anni forse, gioco a nascondino con mia sorella e le mie cugine, tutte in cerca di emozioni e avventure, come solo l’infanzia libera e brada ci regala. Trovo la cantina aperta, e quale luogo è migliore, per nascondermi, di quell’antro buio dove solo i grandi possono entrare? Coraggiosa avanzo nel buio e mi chiudo la grande porta di legno alle spalle, sento scattare la serratura.
L’interruttore della luce è in alto, troppo in alto, per la mia statura, così come lo è la maniglia del portone, irraggiungibile dalle mie braccia tese. Che tentano nel buio di tastare la porta, la ruvida parete, in cerca di qualcosa che sia una via di fuga, uno spiraglio. Ma niente, non c’è niente che io possa raggiungere e il buio è pesto, l’odore morde lo stomaco, fa paura, quella paura che attanaglia, che blocca il pensiero, che mi condensa cristallizzata e immobile, mentre capisco che posso solo aprire la bocca e urlare, con tutto il fiato che ho in gola, urlare aiuto, sperando che qualcuno senta, che non è detto, perché i grandi sono in casa, presi dalle loro azioni grandi, rumorose, dai loro pensieri grandi, dalle loro grandi parole, che non capisco e non mi capiscono. E non sempre ascoltano, tantomeno se mi separano da loro grossi muri in pietra, profondi e spessi, da isolare il freddo e lasciarlo fuori o sottoterra, dove si trova la cantina.
E allora io urlo, da un tempo che mi sembra immemore, e piango, tremo e mi dispero, e la voce non ce l’ho quasi più e mi fermo solo un attimo per riprendere fiato. Sono talmente spaventata che non sento la voce di mia sorella che da fuori mi trova e dice “tana” e corre via a chiamare qualcuno. Così uno di quei grandi arriva, forse mio padre, apre il portone pesante e immenso, e la luce mi acceca, mentre vengo presa in braccio e mi sento salva, fuori pericolo, protetta, amata, e forse anche io svaporata”.
Mi aggrappo alla memoria di quell’attimo, di quel ricordo, di tanti come quello in cui mio padre mi prende in braccio e io salva perdo ogni paura. Mi aggrappo alla memoria che mi salva dall’oscurità, alle parole di chi ricorda, ai miei ricordi affastellati nel buio, da illuminare uno a uno, con calma, dandomi il tempo per trovarli e trattenerli grazie alla scrittura, prima che sfumino, anche loro troppo lontani perché possa tramandarli.
Mi aggrappo alla poesia di Pierluigi Cappello dal titolo Tramandare:
L’aria è quella umida di marzo quando piove
penso al significato della parola tramandare
mentre sto qui, in questa luce piatta del mattino
e immagino come potrebbe essere
ma non mi viene in mente niente
niente che somigli alla caligine sotto i denti
dopo che tutto brucia e la luce degli incendi
fa luminose le spalle di Enea, Anchise salvato dai crolli.
“Il carapace è la casetta delle tartarughe,
e liscia a toccarla e fatta d’osso, e forse un giorno la toccherai,
ma adesso metti un po’ di azzurro sul foglio
e dentro il cielo fai tanti piccoli segni a forma di vu:
quelle sono le rondini, che in primavera
volano lontane e veloci
e quando si abbassano si sa che dopo piove,
diceva mio padre”.
Qualche volta si sta fermi per andare
più in alto e più lontano
qualche volta si sta fermi per rimanere fermi
domani e qui, domani ci aspetta
un passato pieno di gloria
domani sarà tardi e saremo felici.
È una notte di Dicembre poco prima di Natale, il viaggio è durato molte ore da Aprilia a Sansepolcro, lungo la vecchia tiberina del 1974. La macchina è carica, mio padre al volante, mia madre a fianco, io, mia sorella e mio fratello dietro, addormentati gli uni sugli altri. Papà ferma la macchina sull’ultima salita prima di arrivare, c’è troppa neve perché si possa proseguire. Ci viene incontro Generoso, il contadino per noi nonno adottivo, che si occupa della nostra casa dal nome Casino. Ci aspetta con una torcia, lui della neve non ha paura, dopo averla attraversata a piedi portando in salvo le sue membra vinte ma non sconfitte, in quella che è stata la ritirata di Russia. Ricordo come in sogno che qualcuno mi prende in braccio, mi piace oggi immaginare fosse mio padre, ma forse lui aveva in braccio mia sorella, mia mamma mio fratello e io ero in braccio a Generoso. Avanziamo a piedi per arrivare nella casa scaldata dal fuoco nel camino e il ricordo rimane uno dei primi della mia infanzia, uno dei più avventurosi, perché la neve non l’avevo ancora mai vista.
Come allora, oggi 31 Gennaio 2019, la neve attutisce i nostri passi mentre camminiamo accompagnando mio padre nel suo ultimo viaggio. Ho in braccio la sua urna leggera, le ceneri non hanno più il peso degli anni, quasi ottanta, che ha percorso passo dopo passo, senza mai arrendersi nemmeno di fronte alle prove più dure. Qualche fiocco continua a cadere lieve, copre le nostre tracce, i segni di un cammino che non avremmo mai voluto percorrere, noi figli accanto a nostra madre, moglie per cinquant’anni, accompagnando quello che resta di un uomo, per riporlo nella degna dimora del ricordo.
La neve di allora e quella di oggi, due immagini specchio una dell’altra: io in braccio a mio padre durante una nevicata, la mia vita appena all’inizio, lui in braccio a me alla fine della sua vita, ancora la neve ci accompagna. Mi arrampico su una scala che l’addetto del cimitero sostiene e deposito l’urna nella nicchia predisposta. Ultimo piano a destra all’ombra di un cipresso, nella piccola costruzione dove gli alloggi più in basso sono già occupati.
Il cimitero è piccolo, un luogo rimasto aggrappato al passato come il comune nel quale si trova, Pieve Santo Stefano, Città del Diario e della memoria. Papà voleva tornare in questa terra per l’inizio di quel tempo che confina con l’eterno, voleva tornare nel luogo che aveva amato più di ogni altro, dove aveva costruito la casa delle nostre vacanze, il Casino, e i profondi legami con un mondo aggrappato alle radici contadine delle quali aveva bisogno per farsi carico del suo compito di diventare radice per noi, cinque rami della sua quercia. Il cognome Cerù deriva da cerro, un albero della famiglia delle querce. Questo l’ho scoperto quando già sapevo che mio padre era quell’albero e io da lì ero germogliata. E mi ha aiutata a capire il suo costante desiderio di tornare alla terra, alla campagna.
Leggo le parole di Lia Levi nel suo “Questa sera è già domani”: “La tradizione, sai, è l’albero. La foglia, se non è attaccata all’albero, diventa secca, vola via e dopo poco non è più neanche una foglia”. E forse anche per questo, nonostante abbia provato a vivere nel nuovo mondo, nonostante abbia cercato nell’Inglese la mia voce, nonostante abbia fatto di tutto per definirmi una vera newyorkese e nonostante continui a sentire un grande amore per quella metropoli, a un certo punto sono tornata in Italia, ho recuperato la mia lingua, le parole della mia tradizione, il lessico nel quale sono cresciuta, assieme a un progetto, quello di trasformare in agriturismo una vecchia azienda agricola, ereditata da mio nonno e offertami da mio padre e da mia madre. Dal 2005, dopo sei anni trascorsi a New York, sono approdata con mio marito e due figli piccoli, in una terra molto vicina alla Toscana che conoscevo da bambina, quell’Alta Valle del Tevere, comprensorio tra alta Umbria e bassa Toscana, che è quasi una piccola regione a sé rimasta legata alle tradizioni dei paesi che la compongono, tra i quali Pieve Santo Stefano.Mio padre si chiamava Luciano e per una di quelle coincidenze strane, in questi giorni di lutto stavo leggendo il libro di Lia Levi, scoprendo, alla fine del romanzo, che la storia di Alessandro, del bambino ragazzo che sfugge alla deportazione degli ebrei italiani per un vero miracolo, riuscendo a scappare in Svizzera con suo padre e sua madre, è in realtà la storia del marito di Lia Levi, Luciano Tas, che ricorderò da ora in poi per sempre, grazie al racconto dell’autrice che è stata sua moglie e alla sua scrittura aggrappata alla memoria.
Era il 1973 quando mio padre e mia madre comprarono un casale abbandonato per trasformarlo nella casa delle nostre vacanze e decisero di prendere la residenza nel Comune di Pieve Santo Stefano, Pur abitando ad Aprilia nell’Agro Pontino, avevano eletto quel luogo come nostra terra adottiva. È li che ho trascorso tutta la mia infanzia, le lunghissime estati, le vacanze di Natale, di Pasqua ed è per questo che tutti noi Cerù abbiamo un legame con Pieve Santo Stefano, “Città del Diario” e con San Sepolcro, “Città di Piero della Francesca”. L’antica valle sulla quale si affacciava il casale chiamato Casino e dove si trovava il vecchio paesino della Madonnuccia è stata invasa dal Lago della Diga di Montedoglio, ma conservo ancora il ricordo di un paesaggio ormai sommerso che prima affiancava la vecchia statale tiberina, anch’essa ormai sotto il lago.
Nel 1984, Saverio Tutino fondò a Pieve Santo Stefano il primo archivio pubblico in Italia, per raccogliere diari, epistolari e memorie autobiografiche di gente comune. È stato così che la cittadina toscana è diventata “Città del Diario”, ed è nato il “Premio Pieve”, un concorso che raccoglie centinaia di scritti e ne seleziona dieci per arrivare a premiare quello che verrà pubblicato. Nel 1991 è nata la Fondazione Archivio Diaristico Nazionale (Onlus) e da allora i diari di Pieve hanno incontrato cinema e teatro, fino alla creazione del Piccolo Museo del Diario.
Oggi più che mai riconosco il valore di questo luogo della memoria e me ne sento parte, come testimone e come lettrice. Ricordo la mia prima visita all’archivio, durante le giornate del Premio Pieve, quando si poteva vedere esposto il famoso lenzuolo sul quale Clelia Marchi, una donna rimasta sola, aveva deciso di scrivere a mano con una calligrafia piccolissima i suoi pensieri. Scriveva Saverio Tutino nella prefazione al libro che contiene il diario di una vita di abitudini contadine e affetti famigliari: “Clelia Marchi arrivò a Pieve Santo Stefano un giorno d’inverno del 1986, col suo lenzuolo sotto il braccio. Era venuta in treno fino ad Arezzo. Era scesa dalla corriera, con l’aria compunta e festosa delle donne già avanti negli anni, che hanno trascorso una vita intiera senza mai uscire dal loro comune di nascita. Un viso bello, incorniciato da una capigliatura canuta e ben pettinata, le trecce attorcigliate, gli occhi sfavillanti. Portava l’età indefinita di una capofamiglia contadina vestita bene per una cerimonia”.
La storia di questa donna inizia con queste parole:
“Care persone fatene tesoro di questo lenzuolo
che c’è un pò della vita mia; è mio marito;
Clelia Marchi (72) anni hà scritto
la storia della gente della sua terra,
riempendo un lenzuolo di scritte,
dai lavori agricoli, agli affetti”.
E, riga per riga, racconta il lavoro nei campi e il grande amore per il suo Anteo: “Le lenzuola non le posso più consumare col marito e allora ho pensato di adoperarle per scrivere”. Le righe del lenzuolo numerate una ad una per non perdere il filo leggendo. Questa opera, divenuta un libro e il simbolo dell’Archivio dei diari, ha una stanza tutta per sé nel Piccolo museo del diario.
La neve rende tutto magico, mentre lasciamo il cimitero, noi figli accompagnati dai consorti e nostra madre. Tende a cancellare le tracce di un percorso doloroso, quasi annullando quella sofferenza. Eppure mio padre ha seminato tanto e rimane nel ricordo di tantissime persone che l’hanno incontrato e conosciuto. È stato un giardiniere saggio, come mi fa notare un amico. E io sono una delle sue piante, provo a ricordarmi ogni giorno, da quando l’ho salutato per l’ultima volta. Finché continuerò a crescere e a fiorire lo farò aggrappata alla sua memoria e alle radici che ha saputo donarmi.
Scrive Khalil Gibran nel suo meraviglioso Il Profeta:
Vorreste conoscere il segreto della morte.
Ma come potrete scoprirlo,
Se non lo cercherete nel cuore della vita?
Il gufo,
I cui occhi sono fatti per la notte
E sono ciechi alla luce del giorno,
Non può svelare il mistero della luce.
Se davvero volete
Contemplare lo spirito della morte,
Spalancate il vostro cuore al corpo della vita.
Perché vita e morte sono una cosa sola,
Come una cosa sola sono il fiume e il mare.
Nella profondità delle vostre speranze e dei vostri desideri
Sta la vostra silenziosa conoscenza dell’aldilà.
E come il seme che sogna sotto la neve,
Il vostro cuore sogna la primavera.
Fidatevi dei sogni,
Poiché in essi è nascosta la porta
Che introduce all’estremità.
(…)
Che altro è infatti il morire
Se non stare nudi nel vento
E sciogliersi nel sole?
E che altro è dare l’ultimo respiro
Se non liberare il respiro
Dalle sue incessanti ansietà,
Sí che possa espandersi
E cercare Dio senza alcun ostacolo?
Solo quando verrete al fiume del silenzio
Canterete davvero.
E quando sarete giunti in cima alla montagna,
Allora comincerete a salire.
E quando la terra rivendicherà le vostre membra,
Allora veramente danzerete.