Lingotto 8: Ciliegi
[… Segue…] Tra i tanti alberi sparsi per il Salone Internazionale del Libro di Torino, ne ho trovato uno, anzi tanti ciliegi, in un bellissimo romanzo, nel quale il tema della cura dell’ambiente è coprotagonista in una storia di riscatto umano. “Il guardiano della collina dei ciliegi” è il nuovo romanzo edito da Fazi, di Franco Faggiani, giornalista e scrittore torinese al suo secondo romanzo, dopo il primo dal titolo “La manutenzione dei sensi” (Fazi Editore).
Il suo nuovo libro è una biografia romanzata, la storia reale del maratoneta giapponese Shizo Kanakuri che, giovanissimo, viene inviato dall’imperatore a rappresentare il Giappone nei giochi olimpici di Stoccolma del 1912. La missione è di grande onore ma il giovanissimo e promettente atleta non la porta a compimento. La sua vita, da quel momento in poi precipita nel mistero. Di lui si perdono le tracce, fino al 1967, 55 anni dopo, quando, lontano dai riflettori, porta a termine l’impresa che tanti anni prima non era riuscito a compiere. Il Comitato Olimpico Internazionale lo registra allora nei documenti ufficiali della Maratona olimpica di Stoccolma del 1912 (lunga 40 km e 200 metri), affiancando al suo nome il tempo impiegato: 54 anni, 8 mesi, 6 giorni, 5 ore, 32 minuti, 20 secondi e 3 decimi. Il documento esiste ed è l’unica testimonianza di una vita che, pur avendo mancato l’obiettivo, non si è sottratta alla seconda chance di centrarlo.
Sono andata ad ascoltare l’autore che conversava con la bookblogger Giulia Ciarapica e il meteorologo Luca Mercalli, grazie all’amica Debora Pisano, ufficio stampa della casa Editrice Fazi che mi aveva segnalato l’evento e il romanzo appena uscito. Faggiani ha raccontato di essere rimasto colpito dal trafiletto di un giornale in cui era riportato il tempo ufficiale della maratona di Stoccolma del maratoneta giapponese, un tempo misurato in anni e giorni, anziché in ore. Dalla partenza all’arrivo, una vita intera pressoché sconosciuta. È nata così l’ispirazione di un romanzo che racconta in modo plausibile quale potrebbe essere stata la vita di questo personaggio. La narrazione è intrisa di cultura giapponese, nei dettagli del paesaggio, nel ritmo delle descrizioni, nei particolari che riguardano la tradizione. Alla storia fa da scenario il cambiamento dell’ambiente assoggettato alla presenza degli esseri umani. Così, il tema della disciplina della corsa, e quindi della sfida personale di un atleta, diventa metafora della sfida collettiva, quella di preservare l’ambiente in cui viviamo. Non abbiamo molto tempo per invertire una tendenza che sembra portare la specie umana all’autodistruzione. Il Ciliegio Yamazakura è un albero sacro al Giappone. E la sua fioritura è simbolo di bellezza, di rinnovamento e di vita. Anche per questo, la possibilità che il personaggio del maratoneta che ha fallito e ha disonorato la sua missione, possa redimersi e curarsi grazie alla cura di un bosco di Ciliegi, è una bellissima storia di rivoluzione umana, di cambiamento, di riscatto, e della possibilità di rendere ogni attimo della nostra vita significativo, anche quello più doloroso e apparentemente privo di senso.
Secondo Mercalli, il romanzo è scritto rispettando una cultura simbolo di lentezza, di tradizione, di un rapporto con gli alberi, con le fioriture, con i boschi, con la bellezza, molto radicato nella sensibilità collettiva. E le parole chiave della narrazione sono Tempo, Dedizione, Metodo, Temerarietà, Riscatto, Osservazione e Azione. Ma la parola più importante è Cura, intesa come prendersi cura dell’ambiente naturale di cui siamo parte, perché così facendo ci prendiamo in realtà cura di noi stessi. L’altro elemento chiave è il concetto di Onore. Come ci si può riscattare quando si fallisce? Come si supera l’erosione della colpa e si arriva al perdono, di se stessi e dell’altro? Attraverso le azioni volte a portare a termine quello che si è iniziato: “Solo chi chiude i conti con il passato può riuscire a guardare oltre l’orizzonte e perdonare se stesso”. E tra queste azioni si coglie un nesso tra la redenzione del protagonista e il lavoro di potatura degli alberi: “Avevo sperato nel silenzio assoluto per accompagnare le mie camminate meditative e quelle dedicate alla custodia dei ciliegi. Il primo lavoro consistente fu quello di tagliare i rami più alti, sottili e sterili che, con il peso della neve, si sarebbero di certo spezzati finendo per danneggiare quelli sottostanti. Se si eliminano i rami improduttivi, quelli inutili, quelli che rimangono crescono più rigogliosi. Questo principio vale per ogni cosa, anche per le persone: eliminare i pensieri negativi per far sì che quelli positivi abbiano più spazio e vigore per svilupparsi”.
Mentre leggevo mi raffiguravo l’immagine che l’amica torinese Lelia mi aveva regalato lanciandomi la parola Alberi prima di salutarci: “La mia parola è Alberi“, mi aveva detto. “Non in generale, quelli che emergono dalla nebbia in inverno, tipo i gelsi potati con i loro rami esposti, ognuno una bellissima struttura”.
C’è un dialogo nel romanzo che ha richiamato queste parole. Quello tra il guardiano della collina dei Ciliegi e un visitatore che lo va a incontrare e vuole visitare gli alberi sulla collina: “Vedrà tronchi dritti e rami nudi, leggermente arcuati. Si immagini pure un ombrello aperto senza la tela addosso.
Be’, è proprio da questo che si potrebbe capire la perfezione architettonica delle piante. Ad aggiungerci foglie e fiori ci pensa la mia fantasia, anche se in questo caso potrebbe non essere all’altezza della realtà”. A parlare è un ospite sensibile alla bellezza dell’architettura delle piante, colui che aprirà la porta verso la possibilità di riscatto del maratoneta ormai anziano. Perché la storia di redenzione può durare una vita intera: “La cura dei Ciliegi Yamazakura richiedeva tempo, dedizione e metodo, ed era densa di imprevisti. Il fascino delle cose sta anche nella loro precarietà, nella scelta della soluzione più temeraria per affrontarle”.
Durante i saluti sempre difficili, Carlo, marito di Lelia, mi lancia la sua parola: Decespugliatore. Non a caso questa coppia resiste da oltre cinquant’anni, penso. C’è una complementarità, lei che guarda gli Alberi di gelso potati e lui che riflette su uno degli strumenti funzionali alla potatura. Entrambi cercano parole nei libri, ma Lelia le trova spesso nella poesia, si sofferma sulla struttura degli alberi nella nebbia, radici capovolte, simbolo della nostra storia e la memoria. Carlo immagina gli oggetti come testimoni di una storia. Mi parla dell’evoluzione delle tecnologie, del fascino che prova ripercorrendo la storia degli utensili creati dall’ingegno umano. Gli oggetti sono elementi chiave per ripercorrere e comprendere l’evoluzione della nostra specie, la storia delle civiltà umane. Alcuni oggetti sono comuni a civiltà differenti, sono stati inventati indipendentemente, in parallelo. Altri invece sono passati da una civiltà all’altra, assi perpendicolari di intersezione tra culture diverse. Individuare questi assi ortogonali o paralleli aiuta a inquadrare la storia umana. [-continua…]