Stari Most
Ho attraversato il Vecchio Ponte di Mostar, lo ‘Stari Most’, lo scorso settembre. L’ho percorso avanti e indietro più di una volta, fermandomi a guardare le acque del fiume Neretva, le cui sfumature dal blu al turchese riflettono l’azzurro del cielo. L’ho guardato dall’alto del minareto della Moschea Koski Mehmed Pashai, e da molte altre prospettive, durante un breve soggiorno nella città bosniaca, ancora oggi simbolo dell’incontro e della convivenza possibile tra oriente e occidente, nonostante le profonde ferite inferte dalla guerra dei Balcani. Ho camminato per le strade di Mostar inseguendo il passo sicuro di mia figlia diciottenne, che ha scelto di studiare nel Collegio del Mondo Unito (United World College) della Bosnia Erzegovina. La visione delle diciotto scuole, distribuite in tutto il pianeta, è quella di un’educazione basata sulla valorizzazione delle diversità culturali. L’educatore tedesco Kurt Hahn fondò il primo Collegio dell’Atlantico nel sud del Galles, quando la Guerra Fredda era al suo apice, con l’obiettivo di unire giovani studenti da diverse nazioni perché diventassero costruttori di pace, a partire dall’apprendimento collettivo, la collaborazione e la comprensione dell’altro.
“È importante conoscere le radici di diverse religioni, ma soprattutto è importante comprendere la religione dal punto di vista dell’individuo”, mi spiega Adnan on line quando lo chiamo per commentare le notizie di tensioni risorgenti nei Balcani. “Non ci sono due cristiani uguali o due musulmani uguali. A questo serve il dialogo inter religioso, anche tra persone di diverse generazioni. Non possiamo comprendere una religione senza ascoltare l’esperienza di chi la vive. Ci sono parole che fanno paura nel mondo occidentale, per come sono presentate dai media. La parola Jihad, per esempio, significa la battaglia interna a ogni individuo per migliorarsi, la lotta tra la propria parte oscura e quella illuminata. Oppure ḥaǵǵ, letteralmente pellegrinaggio alla Mecca, è una parola sull’importanza del viaggio come possibilità di allargare i propri orizzonti”.
In questi giorni si parla in Italia di tensioni risorgenti tra la Serbia e la Bosnia? Pensa che ci sia il rischio di nuovi conflitti?
“Credo che ci sono tempi duri e tempi migliori, ma penso che questo periodo difficile passerà in pochi mesi, o in qualche anno. Ho fiducia nei nostri valori, nel fatto che la nostra diversità sia la nostra forza. Purtroppo, se si guarda a un presidente che è stato protagonista nel periodo della guerra, con le stesse idee di destra che aveva allora, non ci si può aspettare che cambi. Se anche dall’esterno può sembrare cambiato, non è così dall’interno. Se le persone che hanno occupato cariche politiche durante la guerra non fossero più al potere, la situazione potrebbe essere molto migliore. “
Dopo una generazione è stata rimarginata la lacerazione interiore provocata dal conflitto?
“Non ci sono problemi tra le persone comuni. Il problema è stato ed è tuttora insito nel discorso politico. Sono i politici, quelli di allora e quelli attuali, a esercitare pressioni basate sul controllo e sulla paura. Propaganda del tipo, ‘se non votate per me, gli oppositori prenderanno le vostre terre, vi uccideranno’, serve a controllarci, facendo leva sul terrore. E se i media mostrano ogni giorno aspetti della realtà basati sulla paura, se non si ha occasione di coltivare e scoprire la fratellanza, allora la paura si traduce in odio. Questo avviene ovunque nel mondo. I politici creano problemi che influenzano tutti. Anche se tra le persone comuni non ci sarebbero queste ostilità o questi problemi.”
Mostar è da sempre un luogo simbolico, che un tempo indicava la possibilità di convivenza tra musulmani e cristiani. Cosa è accaduto negli anni che hanno preceduto la guerra civile?
“Quando è cominciata la guerra Mostar era la città con la maggiore percentuale di matrimoni misti, quasi il 30%. Nonostante questo è stata la città più distrutta. Sembra inspiegabile, data la incredibile convivenza all’interno delle famiglie tra persone di culture e religioni differenti, eppure spesso proprio i conflitti tra fratelli possono rivelarsi i più accaniti e violenti.”
Nel momento più acuto del conflitto, quando tutti sparavano contro tutti, come avete potuto sopravvivere?
“Non lo so. Quando Mostar è stata attaccata dall’armata croata, non avevamo elettricità, acqua, cibo. Si potevano avere razioni di farina con una tessera. La situazione era molto critica. Alcune volte, tornando dalla radio dove lavoravo, non riconoscevo la strada di casa, per gli effetti dei bombardamenti. Esplodevano migliaia di granate al giorno. Avevamo messo delle coperte che coprivano le strade e ci proteggevano dai cecchini. Ogni tanto arrivavano convogli di aiuto delle Nazioni Unite, ma non erano tanti, non abbastanza. Però qualcosa arrivava. E poi c’erano aerei americani che lanciavano provviste, che però finivano anche sulle montagne, dove dovevamo andare a recuperarli.”
E la riconciliazione. Come è avvenuta dopo la guerra? Che tipo di azioni sono state fatte.
“Continuando a lavorare in radio, ho cominciato a collaborare con la prima missione europea e internazionale, che ha aiutato Mostar a ritrovare unità. Dopo l’accordo di Dayton, sono venuti ambasciatori di vari paesi europei e hanno riunito personalità politiche appartenenti a entrambe le parti divise della città, per guidare in modo unito la ricostruzione. Queste persone sono rimaste per due anni e hanno fatto un lavoro incredibile per ricostruire, difendere i diritti umani, instaurare una democrazia, costruire infrastrutture, creare posti di lavoro, occuparsi con noi di tutto quello che poteva servire per riportare la città a vivere. Fatto questo hanno lasciato la città a noi locali. Io lavoravo in questa organizzazione. Mi occupavo di trasporti, logistica, a volte fungevo da interprete. “
Lei pensa che questo processo abbia posto le basi per evitare eventuali nuovi conflitti?
“Quello che succede oggi in Bosnia è abbastanza normale dal nostro punto di vista. Le tensioni riguardano il Kosovo, la Russia, non sono direttamente collegate a problemi locali, ma a problemi su scala più ampia sui quali non abbiamo controllo. Al momento la vita quotidiana non ne è influenzata, noi lavoriamo, sopravviviamo, sono ormai trent’anni che questo tipo di tensioni vengono più che altro alimentate dalla politica, sia locale che internazionale, dai media. Il più grande errore da parte dell’Unione Europea è stato di non accogliere la Bosnia all’interno della Comunità. Doveva invitarci e trasformarci dall’interno, invece di imporre condizioni di cambiamento a priori. I nostri valori sono Europei e se oggi fossimo in Europa da un trentennio non staremmo ancora parlando di certe tensioni, nel senso che qualsiasi problema dei Balcani sarebbe un problema anche europeo. Non ci possiamo dimenticare che la prima guerra mondiale è nata qui.“
Mia figlia Lucia finirà la scuola superiore in questa città, con altri studenti provenienti da tutto il mondo, che vivono in un contesto non separato dalla vita sociale cittadina. Anche lei ha provato l’ebbrezza di un tuffo nelle acque del Neretva, seppure non dal trampolino alto venticinque metri, famoso per la competizione annuale di giovani atleti bosniaci. L’immagine del ponte distrutto nel Novembre del 1993 dai bombardamenti Croati è diventata un simbolo dell’assurdità della guerra. Oggi invece il ponte ricostruito rappresenta la possibilità di risanare anche le ferite più profonde. Come si è arrivati alla ricostruzione di questo tesoro architettonico per l’umanità?
“Quando il ponte fu costruito, nel 1566, Mimar Hayruddin impiegò dieci anni per portare a termine il progetto. Lui era un apprendista del famoso architetto Mimar Sinan, che aveva costruito i più importanti palazzi del Sultano a Istanbul e nell’Impero Ottomano. Il Sultano era molto nervoso per la tempistica e aveva dichiarato che avrebbe ucciso l’architetto se qualcosa fosse andato storto. Così Mimar, appena compiuta l’opera, scappò da Mostar, nelle campagne, per aspettare e vedere se il ponte avrebbe retto al passaggio delle persone. Quando i suoi amici gli dissero che non era successo niente, ha lasciato Mostar senza mai più rivedere il ponte. Subito dopo la guerra, già a Dicembre del 1993, è stato istallato un collegamento temporaneo al posto del ponte vecchio e il sindaco di Mostar ha dichiarato che il nuovo ponte doveva diventare un luogo di pellegrinaggio, un po’ come Medjugorje, per tutte le religioni e per coloro che non credono, un luogo di unione di culture e tradizioni diverse. Così, anche se dopo la guerra il presidente turco aveva offerto di contribuire economicamente alla ricostruzione, il sindaco ha declinato l’offerta. Non doveva diventare un ponte musulmano o turco, doveva essere frutto della collaborazione di tutti i popoli, persino i serbi e croati che lo avevano distrutto. Arrivarono finanziamenti dall’Unesco, dall’Aga Khan Trust for Culture (AKTC), da organizzazioni europee, americane. E questo ha indotto un processo di riconciliazione, non solo per noi qui, ma anche per tutte le persone di varie nazionalità che hanno lavorato alla ricostruzione. Così il ponte è diventato un simbolo del punto d’incontro tra Est e Ovest, come la stessa Bosnia. Il nostro paese, dal punto di vista religioso, è storicamente legato all’oriente, mentre dal punto di vista della cultura si rivolge all’occidente. E Mostar è sempre stata e continua a essere un luogo di ponti umani.”