Vita SuperNova – Resistenza
Se dovessi inviare una cartolina dal Salone del Libro 2021, ne sceglierei una in forma di libro. Si intitola “Palermo 1992” e fa parte di una collana appena nata chiamata appunto “Le cartoline”, e ideata da Rosario Esposito La Rossa e la sua casa editrice indipendente Coppola Editore, allo scopo di raccontare gli eventi cruciali dell’Italia post unitaria. Il primo ‘cartolibro’ lo ha scritto Andrea Zummo, da anni impegnato nelle scuole con i progetti di educazione alla legalità di Libera (l’associazione che dal 1995 lotta contro le mafie). “È una lettera a un bambino nato in questi tempi di Covid e di pandemia”, ha spiegato l’autore durante la presentazione nel Salone dei libri che resiste alla pandemia, “un bambino che sarà in grado di capire gli eventi del nostro tempo tra circa 15/20 anni, durante il suo percorso scolastico, cioè a circa 50 anni dalla strage di Capaci. Vorrei che fosse un’occasione di discussione per i ragazzi nelle scuole, in questo anno scolastico che coinciderà con il trentennale di quella strage”.
Sono andata a conoscerlo e da lui ho ricevuto in dono la parola Resistenza, una parola importante in un paese in guerra. Perché di un paese in guerra racconta il libro di Zummo, una guerra contro le mafie che, oggi più che mai, non può essere solo combattuta ma deve essere vinta. A partire dall’educazione alla legalità nelle scuole, occorre riconoscere i semi del pensiero mafioso. E non lo si può fare se non si conosce la storia delle stragi del 1992 e degli anni che seguirono. Questa parte di storia non viene trattata nei programmi scolastici. Ma, senza conoscere la storia del giudice Giovanni Falcone e del Maxiprocesso, non si spiegano le stragi e il significato della nascita di quel cartello di associazioni contro la mafia ideato da Don Luigi Ciotti nel 1994 e chiamato Libera.
“Oggi, nel presente, la mafia non è finita”, ha detto Andrea Zummo chiudendo il suo intervento. “È importante la battaglia politica per far passare una rivoluzione culturale, da una classe di insegnamento che consideri questo come un tema cruciale. Una storia diversa che parli del nostro tempo. Don Milani diceva che se in una stanza ci sono un fascista e nove indifferenti, il risultato è che abbiamo dieci fascisti. Io ho cambiato questa frase e dico che se in una stanza ci sono un mafioso e nove indifferenti avremo dieci mafiosi. L’indifferenza va combattuta, andando in direzione ostinata e contraria. Resistendo”.
La lettura è una forma di Resistenza. Perchè la cultura è una forma di Resistenza. E il Salone del Libro di Torino, in questa veste di Vita SuperNova, fortemente voluto fuori stagione, è anch’esso una forma di Resistenza. L’evento piccolo ma importante, della presentazione di un libro cartolina, è uno di quei battiti d’ali che potrà generare un uragano di nuove consapevolezze nel mondo della scuola, tra i giovanissimi, proprio per arrivare al 2022 preparati al trentennale dal periodo delle stragi per mano mafiosa, e pronti a una celebrazione che non sia vuota di contenuti.
La parola Resistenza la trovo anche nello stand Feltrinelli, dove conosco Andrea Roccioletti, organizzatore eventi torinesi per la casa editrice. Lui resiste, puntuale a svolgere il suo lavoro, come anche a sostituire chi è impossibilitato a esserci, mi racconta, si sposta da una presentazione all’altra e lo ritrovo allo stand della casa editrice, dove nella calca di fine salone, resistendo alla stanchezza, continua a fare in modo che ognuno si senta accolto e preso in considerazione. Qui, tra i libri dai molti colori l’aria mi sembra tinta di rosso, grazie al libro che mi riporta al tema della guerra alla mafia. “La stanza numero 30. Cronache di una vita” (Feltrinelli Editore) di Ilda Boccassini, ex procuratore aggiunto della Repubblica presso il Tribunale di Milano.
Il libro è denso del racconto in presa diretta della Resistenza di colei che ha vissuto dalla prima linea, sia gli anni precedenti alle stragi di Capaci e di Via D’Amelio, sia gli anni a seguire. In principio c’è il lavoro di una giovane donna magistrato al fianco di Giovanni Falcone sulle indagini denominate “Duomo Connection” sulla penetrazione mafiosa a Milano. Poi arriva la fine di tutto, quando, il 23 maggio del 1992, la mafia fa esplodere la bomba sul tratto di autostrada di Capaci, spezzando le vite del Giudice Giovanni Falcone, di sua moglie Francesca Morvillo e degli uomini della scorta, Rocco Di Cillo, Antonio Montinaro e Vito Schifani. E a seguire, la mafia fa esplodere la bomba in Via D’Amelio, il 19 Luglio dello stesso anno, uccidendo il Giudice Paolo Borsellino e i cinque agenti della sua scorta, Agostino Catalano, Emanuela Loi, Vincenzo Li Muli, Walter Eddie Traina. Da allora la vita della Boccassini è un ricominciare, resistere, per non tradire la memoria dell’amico, del collega, dell’uomo che lei stessa in questo libro dichiara di aver amato. E lo fa con il candore della verità e della sofferenza nella perdita. “Che cosa avrebbe riservato il destino a me e Giovanni? Non lo so dire, anche se in tutti questi anni mi sono tormentata con questo interrogativo. Ho invece potuto rispondere a un’altra domanda: ho onorato abbastanza la sua memoria con il mio lavoro? La mia risposta è ‘sì’, e poco mi interessa se altri non la pensano allo stesso modo”.
Fin dalle prime pagine, la parola Resistenza risuona nel racconto della Boccassini. Un racconto al femminile, in un mondo maschile, dal quale traspare una incredibile forza, appoggiata sui principi della difesa della legalità, una forza che non nega o nasconde le fragilità della donna, della madre, costretta a lasciare i figli per impegnarsi a perseguire i colpevoli della strage di Capaci, trasferendosi a Caltanissetta e conducendo una vita in assetto di guerra alla mafia. La Boccassini racconta le vicende del suo lavoro di quegli anni, con grande coraggio e onestà professionale. Riporta documenti, cita discorsi e testimonianze, e lo fa in una narrazione completa di sé, che non trascura gli aspetti emotivi, le lacrime versate, scoprendo il volto dalla maschera che ha dovuto indossare per gran parte della sua vita lavorativa. Scrive lei stessa quanto questa sua immagine pubblica fosse “diversa da quella reale. È vero, ho fatto sì che si affermasse una Ilda che non sorride, dallo sguardo serio, a volte torvo, uno sguardo che non vuol blandire né rassicurare. Insomma, per difendermi ho indossato una maschera che con il tempo è diventata la mia faccia, ho lasciato che si ricamasse sul mio essere una donna severa, poco incline ai sentimenti, tutta Codice e tintinnio di manette. Sgradevole? Forse, a volte, anche non volendo”. Parte della sua maschera sono stati grandi occhiali da sole. “Quelle lenti scure erano una paratia tra me e il mondo. Ancora oggi non potrei farne a meno. Anche perché in tutti quegli anni da pubblico ministero ho percepito troppe volte intorno a me cattiveria, invidia e meschinità. Ne ho sofferto e ne soffro ancora tanto, ma sono stata attenta a non manifestare l’inquietudine, a volte le tempeste che queste emozioni provocavano dentro di me: non volevo lasciar trasparire quanto ne fossi – e ne sia ancora oggi – colpita nel profondo. Non sempre ci sono riuscita, come non sempre ho saputo contenere la rabbia. Ma mi sono sforzata di imparare – talora pagando prezzi pesanti in termini di serenità nella vita privata e pure di carriera – ad assumere, come lo definisco, quel tratto ‘corleonese’ osservato a lungo nel corso delle indagini: pensare bene prima di aprire bocca, fare buon viso a cattivo gioco, fingere di assecondare chi vorresti stritolare poi, al momento giusto, reagire, colpire, anche con durezza se necessario”.
Il messaggio profondo di questo libro, scritto come una testimonianza diretta di cosa vuol dire la parola Resistenza nel campo della guerra alle mafie, è quello di tramandare, per le nuove generazioni, la storia delle innumerevoli battaglie, vinte o perse, che sono costate la vita di tante persone. “Penso che i giovani delle prossime generazioni dovrebbero ricordare Giovanni Falcone per quello che ha fatto, non per quello che altri hanno detto di lui;” scrive l’autrice, “dovrebbero cogliere la sua grandezza da ciò che ha scritto di suo pugno e dalle parole che ha pronunciato, diffidando di quelle riferite e a lui attribuite, perché questa attenzione alla verità dell’uomo li renderà persone e cittadini migliori”.
E in effetti il racconto della donna ex magistrato è pieno dei fatti e delle parole di coloro che i fatti li hanno resi storia. Seguendo il filo della parola Resistenza, trovo nelle pagine di questo libro dalla copertina rossa, il discorso del Magistrato Saverio Borrelli, che ha pronunciato nel giorno in cui ha lasciato la toga, all’età di settantadue anni nel 2002. “Fu il giorno del suo memorabile ‘Resistere, resistere, resistere’, rimasto ancora oggi una speranza delle persone oneste”. Il discorso è quasi interamente citato, fino alla frase finale: “Nessuna istituzione, nessun principio, nessuna regola sfugge ai condizionamenti storici e dunque all’obsolescenza, nessun cambiamento deve suscitare scandalo, purché sia assistito dalla razionalità e purché il diritto, inteso come categoria del pensiero e dell’azione, non subisca sopraffazione degli interessi. Ai guasti di un pericoloso sgretolamento della volontà generale, al naufragio della coscienza civica nella perdita del senso del diritto, ultimo estremo baluardo della questione morale, è dovere della collettività ‘resistere, resistere, resistere’, come su una irrinunciabile linea del Piave”.
Grazie a questo viaggio nel SalTo, guidata dal filo della parola Resistenza ho avuto modo di conoscere un altro libro, scritto da Davide Mattiello, ex deputato e membro della Commissione parlamentare antimafia nei governi Letta, Renzi e poi Gentiloni, oggi operatore ecologico a Torino. “Se vince la mafia”, per i lettori più giovani dell’Einaudi Ragazzi, è una storia di umanità e resistenza in cui la mafia riesce a trionfare in un’Italia del futuro. È un racconto distopico, che narra un tempo nel quale la radice mafiosa ha trasformato l’Italia in un paese dal governo mafioso. Il Codice Penale è abrogato e al suo posto vige il Codice d’onore. Denunciare quel che si vede non è più considerato virtuoso ma invece un reato di infamità. L’escamotage della distopia permette di mostrare l’evoluzione di alcuni semi che sono presenti nella realtà di oggi, facendoli esplodere fino alle conseguenze più drammatiche. “La sfida di chi ha anche fare con i quindicenni ora“, dice l’autore presentando il suo libro “è di far cogliere quei semi (come il clientelismo, la seduzione legata alla capacità di intimidire e di comandare, la tendenza a non perdere tempo con l’ascolto delle posizioni differenti, perché segno di debolezza), perché farli cogliere, soprattutto quelli del successo culturale delle mafie nel nostro paese, è un modo utile per introdurre le nuove generazioni a questo fronte di resistenza civile che non è ancora smobilitato, del quale abbiamo bisogno”.
Concludo questo breve e incompleto collage attorno alla parola Resistenza, per come mi è stata regalata da Andrea Zummo con le sue parole da scrivere nella cartolina indirizzata al bambino nato al tempo del Covid e a tutti noi che vorremo leggerne il contenuto a quel bambino: “Caro amico a cui scrivo, sono giunto alla fine del mio racconto. Perdonami, ho semplificato, riassunto, forse omesso. Non c’era il tempo di affrontare tutto, ma volevo che ti restasse qualche frammento, magari per farti venire la voglia di approfondire. Non essere triste se puoi. Queste vicende ci parlano e ci insegnano il cammino da seguire per quanto arduo e faticoso. Adesso sta a te sentire la responsabilità della memoria, affinché essa venga narrata e tramandata, perché è necessario farlo senza che questo diventi una liturgia formale e vuota. Parafrasando uno scrittore nato un secolo fa che raccontò la sua deportazione nei campi di concentramento, ritrovo il senso di ciò che ti ho raccontato e l’impegno a non dimenticare questa storia: ‘scolpendola nel tuo cuore/stando in casa, andando per via/coricandoti, alzandoti/ripetila ai tuoi figli’“.