StraVagante – Tre
Non c’è due senza tre, dice un detto triviale, ma non aggiunge che la terza giornata è la più faticosa, quella dove si percepisce tutta la stanchezza del lavoro che c’è dietro. In questo caso dietro a un Festival StraVagante, dietro alle quinte di un teatro che va avanti nonostante tutto, con le ruote o senza, va avanti a colorare il grigio che ci circonda, che piova o che ci sia vento “the show must go on”!
Il numero tre me lo regala Andrea Calabretta, alla fine dello spettacolo per bambini, portato in giro in questi mesi, dal Teatro Verde a Motore, approdato al Teatro Villa Pamphilj. Sembra un camioncino agli occhi di un bambino, ma del mezzo di trasporto ha mantenuto solo le ruote e la cabina di guida! Per il resto ha un palco e un sipario, ma soprattutto un telefono, verde e GIGANTE per giunta. Il telefono dalla cornetta all’antica, un po’ fuori misura, ma (con)geniale per chiamare e ascoltare la segreteria telefonica di Gianni Rodari, e ricevere una delle sue favole. Quelle al telefono, appunto! È un’impresa, quella del Teatro Verde a Motore, nata per portare il teatro dove non c’è, dove manca persino l’idea del teatro.
“Tre come il terzo giorno”, mi dice Calabretta. “come le lettere che compongono la parola stessa che è numero, tre appunto, come noi, uno, due, tre…e”. E quattro in realtà, come i quattro attori dell’allegra compagnia, oltre ai mostri e agli altri personaggi che popolano il teatrino delle marionette. A fine spettacolo leggo stanchezza nei loro volti, sono stati abilissimi a intrattenere una marea di bambini, rendendoli partecipi dei loro numeri, grazie all’interazione e alle battute che scrosciano spontanee come da una fontana: ne bevi l’acqua e ridi a crepapelle. Calabretta è il maestro che tutti avremmo voluto avere da bambini, trova il giusto spirito per farci ridere davvero, anche noi grandi non solo i piccini. E accanto a lui, orbitano tre voci, quelle di Diego, Valerio e Agnese, note in movimento, anime di maschere, pupazzi e marionette.
C’è lavoro dietro a tutto questo, una parola che mi dona Enrico Biciocchi, con la sua consueta gentilezza. La gentilezza di chi è abituato ad ascoltare, d’altra parte lui è prima di tutto un musicista e compone le musiche dei tanti spettacoli del Teatro Verde. Ma nel mondo del teatro, ognuno lavora un po’ a tutto. È così che funziona. Il lavoro in questo mestiere è quello di camminare tanto, caricare, scaricare, spostare, fare e disfare, montare e smontare, mescolare colori, inseguire l’ispirazione. Oppure miscelare suoni, come fa Enrico, che assiste in tutti gli spettacoli musicali, da tecnico del suono per tutti. E poi al bisogno diventa portatore d’acqua, la risorsa primaria di chi è sul palco a parlare o a cantare, il bicchiere d’acqua non può mai mancare. Portarlo richiede pensiero e azione, un lavoro uguale a una forza per uno spostamento, capace di trasformare energia potenziale in altre forme di energia. Quella cinetica per esempio, o magari quella delle tante risate che arrivano dal pubblico. Un’energia che circola dagli attori agli spettatori e torna indietro sotto forma del calore degli applausi rivolti a chi è sul palco.
Quanto lavoro dietro agli eventi di oggi, messi insieme per comporre un’altro collage StraVagante! Fatico a trovare il capo della matassa di filo in questa terza giornata. Mi aiutano le parole di Eva Paciulli, scesa dai trampoli sui quali ha danzato vestita di bianco. Eva è la prima donna, dopo tutto, e mi regala le parole “cielo, terra, aderenza al momento”, ovvero il sunto perfetto di un percorso nel Paradiso Terrestre oserei dire. Siamo invece nel parco di Villa Pamphilj e il percorso è chiamato “Archeologia Naturale” e diretto dalla regista Fernanda Pessolano. Eva è una delle attrici/danzatrici, incontrata durante questa esperienza in cammino. Tutto si svolge nel silenzio della parola, la colonna sonora lo scricchiolio delle foglie secche per l’arsura di questi mesi, o per una certa trascuratezza del terreno che attraversiamo. Il parco è un luogo che vive di vita propria, innalzando radici al cielo per mezzo di pini secolari. Il verde c’è a Roma, qui e altrove, ma non sempre si vede.
“Siamo ciechi al verde”, racconta Stefano Valente, che mi regala la parola piante. Lui è l’unico a parlare, in due tappe di questa performance itinerante. È la voce narrante del mondo degli alberi, delle foglie, delle varietà di specie di piante, evolute nelle forme più svariate per adattarsi a condizioni diverse. Citando il biologo Stefano Mancuso, autore di bellissimi libri sulle piante, racconta come nasciamo con la potenzialità di interpretare tutto ciò che ci circonda, di vedere tutto il reale attorno a noi, ma impariamo presto a selezionare quello che più ci serve alla sopravvivenza. Per sottrazione dal tutto, focalizziamo l’attenzione sul pericolo dei predatori, per esempio, la vegetazione non costituisce una minaccia, tendiamo a lasciarla fuori dal campo visivo. In questo senso siamo diventati una specie cieca al verde. E a lungo andare, l’evoluzione di noi esseri umani sembra puntare dritta dritta alla cecità rispetto alla natura tutta, come se non ne fossimo parte. Il cammino guidato diretto da Fernanda Pessolano è invece pensato per aprire i sensi a tutto ciò che di solito non vediamo, complice il silenzio, che catturo come sua parola.
“Percorrendo i viali e i sentieri siamo come in una bolla”, mi dice Elisa, raccontandomi la sua esperienza di spettatrice, “è una bolla che ci isola dai rumori estranei, ma ci mantiene a contatto con ciò che è natura. Ogni tanto nella bolla entrano figure vestite di bianco”. Ripenso a Eva sui trampoli, che trova vita tra i rami. A Aurora Pica, danzante da una sponda all’altra di un corso d’acqua, dove trova una maschera, la indossa, la abbandona. A Ian Sutton, che vive e invecchia dietro una cornice, poi ne esce, cammina, cammina… e si accascia sfinito… Mi regala le parole Foresta Barocca. Che vorrà dire? Mentre mi arrovello sul senso di questo accostamento, pensando forse alla musica, forse all’arte che si unisce alla natura, rendendo opera d’arte la natura, mi viene in soccorso il titolo “Paesaggi Urbani“, quello dell’incontro di oggi sulla viabilità delle sponde del Tevere, anche dal punto di vista ciclabile. Richiama la coppia natura e cultura, una delle tante prospettive di un festival che nasce come Festival dei Paesaggi. Invitata speciale era Sabrina Alfonsi, che mi ha regalato il titolo del suo libro, “Patto di Comunità”, un racconto diario degli otto anni di governo del I Municipio.
C’è un patto di comunità anche in questo Festival StraVagante, del quale comincio a sentirmi anche io parte. Un po’ come mi succede quando partecipo per qualche giorno alle fiere dei libri e incontro editori e autori con le loro parole. Così oggi mi sono addentrata dietro le quinte, dopo la lunga camminata, e ho ascoltato il fermento del lavoro di tutti per uno, di tutti per tanti: tutti per uno spettacolo che sta per andare in scena e tutti per tanti spettatori già seduti e pronti nella sala all’aperto, lo spazio senza confini o barriere del teatro di giorno. Si sa che il parco chiude presto la sera. E quindi nel Teatro Villa Pamphilj gli spettacoli sono spesso all’aperto e alla luce del sole (rischiando magari una pioggia improvvisa).
È bello il teatro di giorno, mi dice Francesco tra il pubblico, il padre del regista, mentre aspettiamo lo spettacolo in prima assoluta, “Vaganze Romane”. Nel senso di Sciascia, quello del divagare, narra l’attore Daniele Miglio, la cui bravura raggiunge l’apice nel suo interpretare le infinite declinazioni di una sola parola, Daje, “il piano D. per ogni situazione”. È una parola che le contiene ormai tutte, basta saperla usare. “Perché il Daje de oggi se forma prima della parola. Se nun lo senti, se sente”. Lo spettacolo è esilarante e commovente, grazie alla scrittura di Simona Orlando, che divaga tra il passato e il presente del dialetto romano, raccontando storie umane di resistenza. Attraverso le parole in romano, cattura gli aspetti dolci e amari di chi vive questa città e di chi l’ha vissuta. Lo fa in una serie di monologhi, cuciti insieme dal lavoro di regia di Ariele Vincenti. Attore e regista, il suo teatro è “vivo in mezzo alla gente”, con spettacoli come “Ago” o “Le Marocchinate”. A breve, il suo “La tovaglia di Trilussa”, monologo sulla storia e la poesia del poeta, sarà al Teatro Vittoria (dal 12 al 24 Ottobre). Alla fine dello spettacolo di stasera, mi rilancia la parola localaro. I musicisti che suonano nei locali sanno benissimo chi è questo essere temuto e mitologico, che detta legge e dovrebbe pagare ma più spesso non paga. Ma per scoprirlo davvero è il caso di andare a vedere lo spettacolo, che chiude il programma del Festival romano Domenica 12 Settembre alle 21 al Teatro Biblioteca Quarticciolo. L’attore sulla scena è affiancato dal chitarrista Dario Benedetti, in un duo radicato nella tradizione degli stornelli romaneschi, che si evolvono e tornano al futuro. Le variazioni sul tema dell’essere romani cominciano e finiscono, in questo spettacolo imperdibile, con l’essere artisti. Nel senso di fare il lavoro di artista. Che lo dici a chiunque, che fai l’artista, e ti chiede, “si ma che fai di lavoro?” Come se l’artista non lo fosse davvero un lavoro.
Ritorno alla parola lavoro. Alla dignità del lavoro di chi fa teatro, in tutti i modi possibili. Di chi naviga a vista nello sforzo costante di colorare il grigio. Ché il grigio è peggio del nero, perché al grigio ci si abitua. Di chi crede nel lavoro che c’è dietro e lo sostiene, specialmente ora in questa situazione pandemica. Una di queste persone è Emanuela Giordano, la sua parola è Sorriso. È stata Direttrice Artistica dei Teatri in Comune e ha sempre creduto nell’importanza di cooperare tra diverse realtà teatrali, perché l’unione fa la forza. Negli ultimi tempi è promotrice, o meglio Capotreno dei Treni Umani, un altro modo per ristabilire legami, quello di camminare insieme. E facendolo, ricreare il senso di una comunità umana, come il teatro promosso da questo Festival StraVagante, che non può esistere a distanza o in remoto. Il teatro è dal vivo, come la scuola, e come ogni funzione educativa della società.