Portole
La parola portolano non posso che averla catturata da un marinaio. Mi è arrivata tempo fa, genere di un libro, che ho poi ordinato, e che si trova da qualche settimana sul mio comodino. Più che un libro è uno scrigno, dove trovare perle di mare, in un periodo in cui vorrei essere in vacanza tra una costa e l’altra senza mai approdare. Dato che mi è impossibile fuggire, evado grazie alla lettura. Il libro si intitola “Le onde del libero arbitrio”, edito da NordlightX, e ne ho già accennato a proposito della parola onde. Qui riporto solo un paragrafo che racchiude il tutto di questo manuale/diario/guida: “Come tutti i portolani, Le Onde del Libero arbitrio racconta un sapere indigeno raccolto in anni di viaggi in mare per liberare i sogni di altri viaggiatori. La penna ha navigato su queste pagine con lo stesso stile della barca che questa penna ha ispirato, trasportata dai venti capricciosi del destino, dall’umana superbia del libero arbitrio e dall’innocente ingenuità del marinaio mediocre.Da una piccola barca in due grandi oceani, e da una piccola penna su un mare di carta, naviga un lento cammino verso la scoperta che quando si affronta l’oceano senza quelle maschere che portiamo a terra, il nostro comportamento sarà naturalmente guidato dal mare stesso”.
I libri sono come porti, offrono un approdo, una prospettiva verso l’altrove, un’opportunità di incontro tra culture diverse, sono imprescindibili possibilità di apertura. Di tanto in tanto, uno dei porti dai quali provo ad osservare il mondo si trova a Portole. È da lì che mi affaccio sognando la fuga, pur restando con i piedi per terra. Portole si trova in Toscana, sulla Cortonese, è una località di transito, alla quale si arriva dall’Umbria, attraversando i boschi per raggiungere Cortona. Si sale, si sale, si sale, curve e tornanti, tornanti e curve, e all’improvviso l’orizzonte si apre e si intravede il mare… non proprio il mare in realtà… ma il mare umbro, ovvero il lago Trasimeno, che, dall’alto di quella prospettiva, potrebbe anche dirsi un mare, con le sue Isole, Maggiore, Minore e Polvese. Mi capita ogni tanto di andare a schiarire la mente lassù. C’è un bar di quelli antichi, col banco per i panini autoctoni, una fetta di pecorino e del capocollo o prosciutto, una birra, e ti siedi sui tavolini di legno con vista sui boschi che scendono a cascata verso il lago o il cielo che da lassù non fa molta differenza.
A proposito di mondo, di prospettive sul mondo, di mare e di porti, si è da poco concluso Letterature. Festival internazionale di Roma. Anche quello non ho potuto attenderlo, se non on line. Il tema di quest’anno era ‘Leggere il mondo’: “In questo momento di cambiamento profondo della nostra vita e delle nostre relazioni, cosa si chiede alla letteratura e alla poesia? Conforto, sicurezza, verità? I modelli su cui abbiamo basato la crescente ricerca di affermazione e di garanzie si sono sfaldati di fronte alla potenza devastante di un virus che ha messo a nudo la nostra fragilità, il nostro essere nel mondo segnato dalla caducità e dalla miopia con cui abbiamo pensato noi stessi e la natura. Stiamo faticosamente cercando di reinterpretare il nostro rapporto con gli altri, l’economia, la salute, l’ambiente, ma nella nostra cassetta sembrano mancare molti attrezzi. E allora, la scrittura come può aiutarci? Da sempre il racconto e la parola hanno accompagnato aspirazioni, dolori, gioie, sogni, immagini del nostro pensiero e della sua proiezione sul mondo e oggi più che mai la parola di poeti e scrittori può aiutarci a leggere il mondo“.
Grazie alla prima serata di Letterature, ho potuto ascoltare le voci di alcune scrittrici come Aixa de Lacruz, Carmen Maria Machado e infine Amity Gaige, dalla quale ho catturato la parola mare. “La sposa del mare” NN Editore è il titolo del suo libro tradotto in italiano da Laura Noulian. L’ho letto in queste notti per sentirmi un po’ in vacanza, un po’ anche io su una barca a vela, in viaggio tra le isole dei Caraibi. Il romanzo racconta una storia familiare e di coppia e affronta il tema della perdita e della ‘fuga’ per mare, in barca a vela, che in realtà, per questa coppia/famiglia al limite dello scoppio, coincide con l’incontro con il desiderio profondo e la possibilità di realizzarlo, anche a scapito di perdere tutto.
Una particolarità che mi ha colpita nella voce narrante di questo romanzo, la voce di una donna che si alterna con la voce del diario di bordo del capitano, suo marito e padre dei suoi due figli, è il desiderio di dare nomi al vento. La donna è una poetessa. Non ha potuto realizzare la sua indole poetica e letteraria, ha combattuto con la depressione, come tante donne che rinunciano a una parte di sé dopo la nascita dei figli. Eppure, durante questo viaggio per mare ritrova il ritmo della poesia, in particolare dei versi di Anne Sexton, e la sua voce poetica traspare dal dettaglio di voler raccontare il vento: “Diciamo la verità, ero una pessima vedetta. I cambiamenti di prospettiva mi incantavano. Così come mi incantavano i vari tipi di vento, e continuavo a cercare di battezzarli: vento interrogativo, vento tenero, vento trionfante. (…) Un vento ficcanaso. Un vento avido. Un vento silenziatore. (…) Un vento infantile. (…) Vento ruggente. Vento annientante.”
Non ritrovo tutti gli appellativi, ma ho provato a continuare la lista, pur senza estrarla da una esperienza marina. Ero a Portole, ferma sull’orlo dei boschi ad ascoltare un vento strano, caldo, avvolgente, il vento di questi giorni secchi estivi nei quali piove sabbia leggera, purtroppo, oppure l’aria alita tepore. Da lassù ho ripensato al libro e alla scrittura della Gaige, lasciando andare la penna attorno alla parola vento:
Vento ardito
Vento scontento
Vento frondoso
Vento ritroso
Vento ruspante
Vento tangente
Vento arzillo
Vento tranquillo
Vento sottile
Vento dormiente
Vento sapiente
Vento spiritoso
Vento noioso
Vento criptico
Vento chiosante
Vento amante
Vento capiente
Vento avvolgente
Vento imbelle
Vento ribelle
Vento sbattuto
Vento canuto
Vento soffuso
Vento diffuso
Vento calmante
Vento dirompente
Vento arzigogolo
Vento plurimo
Vento silente
Vento assordante
Vento stantio
Vento strambo
Vento piovente
Vento lacrimoso
Vento luminoso
Vento sterile
Vento rigoglioso
Vento fervente
Vento effervescente
Vento evanescente
Vento svaporante
Vento vaporoso
Vento strepitoso
Vento urlante
Vento cangiante
Vento ostico
Vento sinuoso
Vento ossimoroso
Vento astruso
Vento incerto
Vento aperto
Vento scoperto
Vento accattivante
Vento mordente
Vento assalente
Vento reagente
Vento ruggente
Vento semovente
Vento incompreso
Vento trasparente
Vento assiduo
Vento residuo
Vento morente
Vento assente
…
Mi sono persa in questo tentativo di aggettivare il vento. Non ho pretese quindi di completezza o definizione, tantomeno di forma e contenuto, forse solo vorrei aver catturato frammenti dei sentimenti che mi hanno attraversata grazie alle onde d’aria. Stare lassù si è rivelato un modo di lasciar andare qualche cosa, un sentimento perso per il quale sentivo ancora un doloroso attaccamento. D’altra parte ripensavo all’intervento della Gaige, intitolato appunto “L’arte di perdere”. In apertura l’autrice ha letto la poesia “One art” di Elisabeth Bishop:
The art of losing isn’t hard to master;
so many things seem filled with the intent
to be lost that their loss is no disaster.
Lose something every day. Accept the fluster
of lost door keys, the hour badly spent.
The art of losing isn’t hard to master.
Then practice losing farther, losing faster:
places, and names, and where it was you meant
to travel. None of these will bring disaster.
I lost my mother’s watch. And look! my last, or
next-to-last, of three loved houses went.
The art of losing isn’t hard to master.
I lost two cities, lovely ones. And, vaster,
some realms I owned, two rivers, a continent.
I miss them, but it wasn’t a disaster.
—Even losing you (the joking voice, a gesture
I love) I shan’t have lied. It’s evident
the art of losing’s not too hard to master
though it may look like (Write it!) like disaster.
In italiano, “L’arte di perdere”:
L’arte di perdere non è difficile da imparare;
così tante cose sembrano pervase dall’intenzione
di essere perdute, che la loro perdita non è un disastro.
Perdi qualcosa ogni giorno. Accetta il turbamento
delle chiavi perdute, dell’ora sprecata.
L’arte di perdere non è difficile da imparare.
Pratica lo smarrimento sempre più, perdi in fretta:
luoghi, e nomi, e destinazioni verso cui volevi viaggiare.
Nessuna di queste cose causerà disastri.
Ho perduto l’orologio di mia madre.
E guarda! L’ultima, o la penultima, delle mie tre amate case.
L’arte di perdere non è difficile da imparare.
Ho perso due città, proprio graziose.
E, ancor di più, ho perso alcuni dei reami che possedevo, due fiumi, un continente.
Mi mancano, ma non è stato un disastro.
Ho perso persino te (la voce scherzosa, un gesto che ho amato). Questa è la prova. È evidente,
l’arte di perdere non è difficile da imparare,
benché possa sembrare un vero (scrivilo!) disastro.
Verso la fine del romanzo, una pagina che mi ha riportata alle sensazioni che perdurano per me in questi ultimi mesi, più o meno da un anno a questa parte, cioè quell’impressione di aver collezionato puntini di tante vite all’interno di me, e averli visti come perdite, o peggio ‘fallimenti’, non riconoscendoli invece come errori necessari. Di fatto l’incipit del libro è un amo al quale non si può non abboccare: “Dove comincia un errore? Ultimamente questa domanda così semplice ha preso a sembrarmi difficile. Anzi impossibile. Un errore ha le sue radici sia nel tempo sia nello spazio: nel modo di ragionare di una persona e nel luogo in cui si trova. L’errore si situa precisamente nel punto d’intersezione fra queste due dimensioni, che sono, in termini nautici, le sue coordinate. Il mio errore comincia con la barca?” E da qui si snoda il racconto. Che trasporta il lettore attraverso una scrittura talmente realistica che è difficile non sentirla vera. C’è poi una lettera, quasi in chiusura, che mi ha colpito profondamente: “Caro amico, È passato del tempo, ma io sono ancora qui che rifletto. Ti capita mai di pensare per frammenti che appartengono a un tutto e, nonostante tu riesca ad afferrare ciascun frammento, non riesci mai ad afferrarne la totalità? Vivi i tuoi giorni, cerchi di avere una prospettiva migliore del tutto, ma quello non si mostra mai veramente. Poi, un giorno, ti rendi conto che la ricerca di una prospettiva migliore sul tutto è la vita; è quello il tuo motore perpetuo, e se riuscissi a trovare ciò che cerchi saresti perduto?”
Il disegno che la scrittrice ha pennellato in questa lettera mi ha riportata ai puntini dei miei percepiti fallimenti, che da un po’ di tempo a questa parte vedo più come errori necessari appunto, elementi di un disegno ancora poco definito, quasi stessi facendo pace con parti sparpagliate di me e delle tante vite che ho vissuto cambiando rotta, a volte per inseguire un desiderio altre volte per darmi alla fuga. E la lezione che ho imparato, almeno a oggi, è che i desideri aprono spesso vie di fuga, quando il mare è in tempesta. E quindi tanto vale seguirli, un po’ come vele al vento.
La mia postfattrice preferita…!
Quella tempesta di aggettivazioni è un monologo ideale da mettere in bocca a Don Arturo, il mio vecchio e amato pescatore Procidano, protagonista de “La buona stella del marinaio”… Ad maiora!