Isolitudine

Isolitudine

Aprile 27, 2021 0 Di Marta Cerù

Da qualche settimana ho scoperto la parola Isolitudine, che risuona con un mio stato d’animo, pur vivendo in una delle poche regioni italiane che il mare non lo raggiunge. L’unione di isola e solitudine è stata coniata dallo scrittore siciliano Gesualdo Bufalino, che ha scritto: “Da una parte ci sentiamo rassicurati dal mare che ci avvolge come un ventre materno, dall’altra amputati di ciò da cui siamo esclusi”. Ciò si riflette nel carattere isolano: il senso di appartenenza e l’orgoglio della propria differenza, ma anche la sensazione di isolamento. Da parte mia, questo sentimento da isolana l’ho sperimentato, vivendo per un breve periodo in Sardegna, e più a lungo nell’isola di Manhattan, felice luogo di accoglienza di migranti, provenienti da ogni dove in cerca di fortuna. 

Nella regione dove vivo ora, di isole non ce ne sono, se non quelle sul Lago Trasimeno, la Maggiore, la Minore e la Polvese. Eppure le colline, separate da valli e da boschi, le vedo come delle isole, nel mare della Verde Umbria. A pensarci bene, gli umbri hanno un carattere isolano. Ogni paese è un luogo a sé, ricco di tradizioni e senso di appartenenza. In Alta valle del Tevere, zona di confine tra l’Umbria e la Toscana, anche luoghi vicinissimi possono avere usanze molto diverse, a seconda delle dominazioni, laiche o pontificie. Negli ultimi mesi, la pandemia ci ha costretti, volenti o nolenti, a fare i conti con l’isolamento, con la sensazione di essere abitanti di isole, ognuno la propria, confinata dal proprio corpo e da mascherine e distanziamento sociale. 

Eppure non siamo animali fatti per vivere a lungo isolati. E nella valle dove risiedo, la Valle del Minima, una battaglia ambientale e San Zeno hanno avuto la meglio sulle distanze, creando ponti tra le isole che eravamo diventati. Zeno è un Santo migrante, arrivato in Italia dalla Mauritania, secondo la leggenda, nel Trecento e qualcosa. È venerato a Verona, un Vescovo dalla pelle nera, e si narra fosse erudito, come emerge dai suoi scritti, ma semplice e umile nei bisogni, al punto di nutrirsi solo con i frutti della pesca nel fiume Adige. Per questo motivo è onorato come il protettore dei pescatori d’acqua dolce. Non è ben chiaro come mai in Umbria, in Alta Valle del Tevere, ci sia una chiesa intitolata proprio a questo santo.

D’altra parte il Minima è un torrente di classe A, quindi adatto al ripopolamento degli avannotti (i piccoli delle trote). E se San Zeno protegge i pescatori, il nesso tra questo Santo e la sua Chiesa, in una terra non da lui frequentata, potrebbe anche essere questo. Cosį è che tra due Castelli medioevali, quello della famiglia Bourbon di Petrella, abitato dal discendente Marchese Onorio e da sua moglie Cecilia, e quello di Petriolo, ripopolato da Lieve e Otto, una coppia di belgi che trent’anni fa si sono innamorati di questi luoghi e hanno ristrutturato un castello abbandonato rendendolo la loro residenza, c’è la collina di San Zeno a Poggio, con la Chiesa costruita nel 1300 in nome del Santo, come anche i Vocaboli che la circondano. 

Da un Vocabolo a un Poggio in queste zone ci scorre una valle, la Valle del Minima. Sembra una filastrocca, o un indovinello, ma si tratta del linguaggio umbro per la toponomastica. Anche la mia residenza è un Vocabolo, non una via, non una piazza, ma un elemento che definisce il luogo dove sono state costruite alcune case in pietra, nate come luogo di sosta per chi viaggiava a cavallo e attraversava il confine umbro toscano. Il Vocabolo prende il nome dall’antico complesso di San Zeno a Poggio, con la Chiesa e il suo convento, centrali per la comunità del 1300. La posizione nucleare si è persa nel tempo. La vita dalle colline si è spostata a valle, nel paese di Petrelle, lungo la strada che percorre la Valle del Minima. Purtroppo la Chiesa era abbandonata da quasi un trentennio.

Per fortuna sono arrivati dei polli a salvarla dall’oblio. E anche questo sembra l’incipit di un racconto alla P. G. Woodhouse, il celebre autore inglese dall’umorismo ‘Very British’, creatore del maggiordomo Jeeves e del suo strampalato padrone, protagonisti di tanti romanzi, uno fra tutti intitolato proprio “L’amore tra i polli”. Dicevo, per fortuna sono arrivati i polli, a salvare San Zeno. O almeno, qualcuno potrebbe leggere così una storia che ha il sapore della favola. Una strana storia di abbandoni, ripopolamenti e recuperi. Una storia soprattutto d’amore, per un luogo unico, come ne esistono tanti in Italia. Negli ultimi anni, la Valle del Minima, dall’essere rimasta quasi ferma nel tempo, ha subito un’accelerata evolutiva, a causa di qualcuno che vuole sbalzarla in avanti o indietro, a seconda dei punti di vista. La storia ha a che fare con i polli, con l’insediamento di trentamila polli dentro vecchi capannoni, un tempo sede di un allevamento suinicolo, fatto chiudere dagli abitanti del paese, per il gran danno arrecato all’ambiente. Dagli anni ottanta giacevano in abbandono, capannoni spettrali sul fondo di una valle a imbuto, ma sono tornati alla ribalta quando l’imprenditore che li possiede ha deciso di ripopolarli con un allevamento avicolo intensivo.

Questo progetto ha causato molte reazioni. Soprattutto avverse. Se è vero che viene definito un progetto biologico, dal proprietario e da chi lo sostiene, in generale è ben chiaro che gli allevamenti intensivi moderni, di biologico hanno ben poco. Nonostante per alcuni il progetto di una fabbrica di polli possa essere all’avanguardia e possa rappresentare il futuro, per altri, molti altri, e sopratutto per gli abitanti della valle e delle zone limitrofe, si tratta invece di un progetto anacronistico e miope, che non tiene conto dei rischi nascosti e dei costi enormi che un’impresa di questo tipo avrà per il contesto in cui è calata e per coloro che lo abitano. Un contesto che include la collina di San Zeno e l’annesso cimitero, confinante con le terre dell’eventuale pollificio. 

Da un male però capita che nasca un bene. Ce lo diciamo a volte per superare i momenti difficili, anche senza crederci del tutto, ma in questo caso San Zeno sarebbe rimasta una Chiesa abbandonata, senza la minaccia ambientale del pollificio. Infatti, in un anno oscuro come quello della pandemia da Covid 19, mentre alcune persone guardano al passato come l’unico luogo dove tornare, altre si spingono verso il futuro. Un futuro nel quale, se non ci occupiamo dell’ambiente, non ci sarà dato di vivere come specie umana. L’idea, di salvare l’aria, l’acqua, il suolo, le risorse dalle quali dipendiamo per sopravvivere, non appartiene a chi crede negli allevamenti intensivi. Ma è un’idea che unisce persone anche molto diverse fra loro, distanti, nel tempo, nello spazio, per cultura, età anagrafica, professione, tradizioni e nazionalità. Persone appartenenti a isole diverse, in senso reale o metaforico, a volte ammalate di solitudine, come un po’ tutti lo siamo, chi più chi meno da un anno a questa parte.

Qualche mese fa, una persona dalle tante sfaccettature, un abitante di Petrelle nato e cresciuto in questa valle, Alessandro, tesoriere del comitato CAPEV, Comitato Ambiente Petrelle e Valminima, ha lanciato la proposta di riaprire la Chiesa di San Zeno. Non è un caso che l’idea sia partita da lui, visto che per anni si è occupato della vita del torrente Minima. Ne ha parlato con il Presidente Luigi, che, memore delle sue estati di bambino tra questi boschi, tra le pareti di quella Chiesa, non ha avuto dubbi nell’accogliere la proposta. L’idea sembrava difficile da realizzare, pur se coerente con le intenzioni del comitato, nato per preservare la bellezza, la storia, la cultura e il valore ambientale della nostra valle. Ma occorreva mettere in campo energie umane, oltre che economiche, in un periodo come quello della pandemia, nel quale le interazioni sociali sono ridotte al minimo.

Il forte senso di comunità caratteristico di questa valle, assopito dalle restrizioni dovute alla pandemia, si è ravvivato con l’obiettivo di riaprire la Chiesa di San Zeno che il Capev ha ottenuto in comodato d’uso dalla Diocesi di Città di Castello. Il cuore della valle si è rianimato, attorno al progetto di rinascita di un importante sito storico e religioso, al centro di un’isola verde, popolata da persone che apprezzano l’ambiente, la bellezza, la cultura, le tradizioni e i legami umani, al di là delle differenze. Il Covid 19 ci ha costretti all’isolamento, ma ci ha riportati a capire quanto siamo animali sociali che hanno bisogno dei legami di cuore. 

È stato così che da un male è nato un bene, cioè dalla minaccia che una valle verde, dalla bellezza antica e dalle tradizioni radicate, venga deturpata da un concetto di sviluppo obsoleto, come quello degli allevamenti intensivi, si sono conosciute persone che provengono da luoghi e culture diverse, i nuovi abitanti della valle si sono incontrati con chi da secoli ha abitato questi luoghi, ed è risorto qualcosa, un luogo ma anche uno spirito fluido e allegro che questo luogo vuole popolarlo di progetti, come le cerimonie religiose, l’accoglienza di gruppi scout, di pellegrini, e l’organizzazione di eventi culturali anche musicali.

Le ultime settimane, prima della riapertura, e della Messa, coordinata dal Capev con il Vescovo della Diocesi di Città di Castello, Mons. Domenico Cancian, hanno impegnato tante persone su base volontaria. E questo ha creato legami, prima inesistenti. È stato ripulito il giardino attorno alla Chiesa, dai rovi e dal muschio che arrivavano fino alle pareti e alle scale, grazie a due donne paladine dell’impresa: Lieve e Assunta hanno dedicato giornate intere a tagliare sterpaglie ed erba alta, la prima con l’intento di salvare gli alberi e ridare forma al pendio della collina sulla quale è costruita la Chiesa, la seconda spinta dal ricordo della scalinata costruita con pietre poggiate a secco, per arrivare dalla valle alla chiesa, a piedi, in processione. 

All’interno occorreva riportare la luce, con un nuovo impianto elettrico, e prima di tutto ripulire a fondo, togliendo cumuli di muffa e sporcizia. Sono arrivate le mani di Claudio, che ha restaurato le pareti dei locali della vecchia canonica, la forza e l’energia di Dorina, che ha pulito a fondo ovunque, la Chiesa e il resto, riportando i mobili al colore del legno, il mestiere di Francesco, elettricista e artista delle miniature e dei Presepi che ogni anno la Diocesi di Castello mette in mostra, l’arte del cucito di Manuela che ha salvato i tessuti dell’antico baldacchino, li ha lavati, riparati, restaurati, così come i paramenti abbandonati e divenuti una tana per topi.

Hanno partecipato Christian, Breon, Daniel, Venanzio, Francesca, Paolo, Diego, Antonella, ognuno con un contributo spontaneo dettato dalle proprie capacità. E insieme siamo arrivati al 18 Aprile 2021, data della cerimonia inaugurale, pronti a ricevere il Vescovo, accoglierlo e condurlo in Chiesa, in processione sotto l’antico baldacchino, assieme al Parroco della valle, Don Adolfo. È stato un momento emozionante, nel quale accorgerci, tutti, che molto spesso, più che le risorse economiche, quello che conta per creare e mantenere valore sono le risorse umane. E che si può essere o non essere abitanti di isole, isole noi stessi, ma è sempre possibile riconoscersi e unirsi gettando ponti, grazie al collante della salvaguardia ambientale.