Anima dei bottoni
Sono tornata a Firenze, qualche giorno fa, nonostante la zona rossa umbra, sono partita dal mio comune di Città di Castello, per accompagnare mio figlio nella città dove ha scelto di studiare storia. È il suo secondo anno in un percorso di studi che non è più in presenza. Per questo motivo era tornato a casa, ormai da mesi, seguendo lezioni on line e facendo esami on line. Questo suo isolamento nella campagna umbra ha avuto un costo psicologico. Non è banale per un ventenne rimanere mesi da solo, a sfornare esami interloquendo unicamente con i secoli passati. Così l’ho spinto a tornare a Firenze, almeno per la primavera, per vivere un minimo la città universitaria, se non la vita universitaria, di cui tanti come lui sono privati, senza che il motivo sia così logico. Forse ci si potrebbe fidare di più dei giovani universitari, nonostante il Covid, lasciarli frequentare con le restrizioni e il distanziamento, ma in presenza, come dei lavoratori che hanno bisogno del luogo di lavoro.
È stato scaricando la macchina, poche cose utili per qualche mese di autonomia nell’appartamento dove avrebbe alloggiato in Via San Gallo, che mi sono imbattuta nell’anima dei bottoni. Ho notato l’insegna di una merceria antica, eppure in vetrina c’era un prosciutto e un menù che descriveva svariati tipi di panini accomunati dal titolo SandwiChic. Sono entrata a curiosare e, mentre aspettavo il mio turno per ordinare un panino, ho notato barattoli pieni di bottoni. Lo sguardo calamitato su rotolini di filo, contenitori di bottoni antichi, filati, forbici e ferri da maglia, ho sorriso al ragazzo che preparava panini e gli ho chiesto ragione di quegli oggetti da merceria.
Il commesso, l’artefice del mio panino, si chiama Andrea e mi dice: “Questa era una vecchia merceria. Abbiamo mantenuto l’ambiente e tantissimi bottoni. Prima del Covid regalavamo un bottone antico a chiunque venisse a comprare un panino da noi”. Dico io: “Sopravvivete?” Dice: “Si, abbiamo una clientela locale. Qui vicino c’è la facoltà di storia, vengono docenti soprattutto. Abbiamo prodotti di qualità. Puntiamo su quello”. Dico: “Anche mio figlio studia storia. Diventerà sicuramente vostro cliente!”
In questo scambio di frasi brevi con il ragazzo cortese, che ha finito per farmi scegliere due bottoni, ho pensato a Natalia Ginzburg, al suo breve romanzo “Le voci della sera”, Giulio Einaudi Editore e al dialogo tra uno dei protagonisti, il Tommasino, e la sua domestica, la Betta che, mentre si occupa delle faccende giornaliere nella casa del giovane uomo, gli parla di continuo.
La Ginzburg scrive: “Dice la Betta: ‘Ora vado a casa mia, mi metto vicino alla stufa, che sto calda, e mi accomodo un vestito. È un vestito marrone, vecchio, non è tanto brutto, ma non mi piace più. Allora ho pensato così. Siccome la Magna Maria mi ha dato della seta rossa, ma poca, tutti pezzetti, io con quei pezzetti rifaccio nuove le maniche coi suoi polsi e il collo’. ‘Una bella pensata’, dice il Tommasino’. ‘E i bottoni. Ho già comprato l’anima e li porto poi a Cignano a farli coprire’. ‘Hai comprato l’anima?’ ‘Quella palletta nera dei bottoni’. ‘Ahh’. ‘E il collo. Glielo faccio tondo, alla carletta’. ‘Bene’. ‘Allora, buonasera, ciao Tommasino’. ‘Ciao’.”
Di bottoni ho già scritto, ma non avevo catturato ancora l’elemento essenziale, quello che li rende unici, la loro anima, l’anima dei bottoni, quella palletta nera. Poco più avanti nello stesso capitolo, la descrizione della vita di Tommasino prosegue: “Il Tommasino va quasi tutti i giorni alla fabbrica. Lì non trova niente da fare. Ha una bella stanza, un bel tavolo, un telefono con tanti bottoni rossi e verdi e una poltrona girevole, sulla quale ogni tanto fa un mezzo giro. Ha una grande cartella di marocchino, tutta foderata di carta assorbente, una penna, infilata dritta nel portapenne, un notes, una matita appesa e una catenella. Fa con la penna dei tondini sulla carta assorbente. Scrive, sul notes, anima dei bottoni, palletta nera. E poi china la testa sul tavolo, si preme con i pollici le palpebre e pensa alla programmazione lineare, una linea che va diretta dal produttore al consumatore, diretta”.
È con questa breve introduzione che arriviamo a scoprire, dalla voce della protagonista Elsa, della sua relazione con il Tommasino: “Ci incontriamo, il Tommasino e io, tutte le settimane”. E così, a tre quarti del breve romanzo, tutte le vite dei personaggi, fino a qui delineate, convergono in questa storia d’amore segreta, fatta di incontri bisettimanali in città in un appartamento a via Gorizia, dove i due si amano e il non detto di quegli incontri è denso di significati, come ogni cosa taciuta dalla scrittura della Ginzburg. Il romanzo è un condensato di dialoghi magistrali e i bottoni sono comparse che si affacciano in varie situazioni: sul paltò di uno dei personaggi, sul telefono, rossi e verdi, sul notes di Tommasino, ma soprattutto nel dettaglio riferito alla loro anima.
Il motivo per cui i bottoni sono una sorta di ossessione nella mia vita non l’ho ancora colto. Eppure mi piace appoggiarmi ai significati che altri danno a questi oggetti così comuni, utili, piccoli ma evocativi, degni di diventare arte, protagonisti di storie letterarie. Mi riferisco per esempio al sarto poeta albanese Duli Caja, che vede nei bottoni una metafora degli esseri umani, ognuno unico, nessuno uguale a nessun altro, da cucire in opere d’arte che li mettono in relazione e li rendono più belli insieme, a dare forme a un’arte materica che rappresenta il dramma dell’essere migranti. O ancora all’utilizzo che ne fa la Ginzburg che, nella sua scrittura precisa, essenziale, scarna, riporta nell’anima dei bottoni l’anima di un personaggio, un ascoltatore, solitario, attento, dedito al pensiero della programmazione lineare, sopraffatto dalle vite dei paesani, dal peso di quelle vite vissute prima della sua. Cosa potrà mai esserci di unico nella sua vita dopo quelle di tanti altri? È un personaggio, Tommasino, che non si riesce a non amare, come di fatto lo ama la protagonista. Eppure il filo di tristezza che parte dal titolo del romanzo si cuce attorno a queste due anime abbottonate che, solo nella clandestinità hanno trovato modo di comunicare, rompere il silenzio, sbottonarsi e dare una forma al loro amore. Che purtroppo si trasforma in cenere, quando dalla clandestinità esce allo scoperto nel paese, dove il loro desiderio di dialogo si spegne nel silenzio di una forma privata della sostanza e di un fidanzamento che non arriverà mai al matrimonio.
Tornando da Firenze ascoltavo l’audiolibro nella versione dei Libri ad alta voce di Rai Radio 3, letto da Sandra Toffolatti. Mi sono calata tra quei bottoni, tra quelle anime immortali di una famiglia di paese tra le due guerre e oltre, fino agli anni cinquanta, tanti personaggi uniti dalla voce della protagonista, la giovane Elsa, che ascolta i pettegolezzi di sua madre e li riporta in una narrazione senza filtri, ridotta allo scheletro di un dialogo serrato, quasi come un registratore onnipresente tra le voci del paese, le voci della sera appunto. È un racconto triste, in cui nemmeno l’amore sopravvive. Vive nell’ombra, nella clandestinità, ma appena esce allo scoperto viene soffocato dalle voci, etichettato, incasellato, abbottonato a tal punto che non c’è più niente da dirsi, il desiderio si spegne, anche solo quello della parola scambiata. Cala il silenzio tra le anime dei personaggi, come tra le anime dei bottoni, che non hanno voce. Così la loro storia, da dove vengono, perché si cercano, si trovano, si scelgono, si accompagnano e si separano, possiamo solo immaginarla.
1 commento
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“anime abbottonate” è una bellissima immagine, grazie Mamma!!!