Boe
Emergo da un’esperienza importante. Di quelle come solo con la scrittura, almeno per me. Ne avevo un gran bisogno e lo sapevo. La volevo fare da mesi questa esperienza. L’amica di una vita, Imma Vitelli (ci siamo conosciute al primo anno di università, lei studiava giornalismo io fisica), dopo aver scritto di guerre per anni, inviata per Vanity Fair sui maggiori fronti internazionali, dall’Iraq all’Iran, dall’Afghanistan al Pakistan, dal Congo alla Somalia, curato una rubrica mensile su Marie Claire, aver pubblicato un bellissimo libro sulla primavera araba, “Tahrir. I giovani che hanno fatto la rivoluzione” per Il Saggiatore, aver vissuto a Roma, a New York e poi a Beirut, a Istanbul, di nuovo a Roma e ora a Bolsena, ha creato questa oasi dove vive con una quarantina di tartarughe. Non ci sono mai stata ma la immagino. E una notte, a fine novembre credo, l’ho sognata. Mi sono svegliata e le ho scritto che la seguivo da lontano nella sua nuova avventura chiamata ‘La cura delle parole’, uno spazio che ha creato, dove accoglie piccoli gruppi di persone, disposte a scrivere un racconto per scavare dentro di sé, illuminare, curare le proprie ferite attraverso la scrittura.
Conoscendola sapevo che era qualcosa di profondo, di valido. E le ho detto che avrei voluto partecipare a uno dei suoi ritiri di due giorni. Al momento si svolgono a distanza, per via del Covid. Ma sapevo che il primo ritiro lo aveva organizzato in presenza, sul lago di Bolsena, posto magnifico. Lei mi ha accolta a braccia aperte e mi ha permesso di fare esperienza dei suoi ‘Esercizi di felicità’ e di un luogo che si è rivelato come un’oasi per chi è assetato di quell’acqua nel deserto che è organizzare parole in testo scritto per dare un senso alla propria vita. Sul sito si legge:
“Chi mi conosce sa quanto io ami “Il viaggio dell’eroe” del grande mitologo americano Joseph Campbell. Campbell ha collezionato storie in ogni luogo e in ogni tempo e ha scoperto che esse sono in fondo il racconto della stessa storia: quella delle separazioni attraverso le quali rinasciamo continuamente a noi stessi. L’eroe lascia – o è costretto a lasciare – la quotidianità, la normalità, per entrare in un mondo sconosciuto, che lo mette alla prova. In questo laboratorio online in streaming , scriverai un racconto – il tuo – che scavi dentro un cambiamento. Può essere l’inizio o la meta, non ha importanza, poiché porsi la domanda è già aprire il sentiero. Dopo la condivisione, assegnerò a ognuno di voi una chiave o un incipit e da lì – parafrasando Proust – lavoreremo alla ricerca del senso perduto, collegheremo i fatti alle emozioni, le cause agli effetti”.
Erano giorni nei quali la parola boa mi accompagnava, catturata da una conversazione con l’amico e poeta Andrea Cardellini. Secondo lui chi scrive lo fa disseminando boe, quel tipo di bolle che dal fondo saliranno in superficie, quando sarà tempo. Una volta che sono a galla, emerge anche il disegno, la struttura, grazie al lavoro di riscrittura, di cesello, di limatura. Mi descriveva questo processo, ricordandomi una scena di quel magnifico film di Sergio Leone, “C’era una volta in America”.
I ragazzi, ormai avviati a diventare gangster, attendono sulla barca l’affiorare delle casse di whiskey di contrabbando, dal fondo del fiume, dove venivano gettate all’arrivo delle motovedette della polizia. Il protagonista Noodle aveva avuto l’idea di agganciare le casse a sacchi di sale. Così, con lo sciogliersi del sale, le casse potevano risalire in superficie grazie alla spinta di Archimede, in modo da poterle recuperare. Pensavo e ripensavo alle boe, ricordandomi la sensazione di quando nuotavo in mare in Sardegna, da ragazzina. Una boa era il mio riferimento. Arrivavo, la abbracciavo e poi ripartivo, tornavo indietro, avanti e indietro, fino al chilometro di stile, più o meno, perché quello era il mio metro. La boa mi rendeva sicura di farcela. Quell’aggancio in mare. E il fatto che la raggiungessi non una ma due tre quattro e più volte una consuetudine che mi dava un ritmo.
La parola boa la penso in tutt’altro significato ne ‘Il Piccolo Principe’, Tascabili Bompiani, ritrovando le parole di quel magnifico piccolo grande personaggio: “Il mio disegno non era il disegno di un cappello. Era il disegno di un boa che digeriva un elefante. Affinché vedessero chiaramente che cos’era, disegnai l’interno del boa. Bisogna sempre spiegargliele le cose, ai grandi”. Come sarà emerso quel quadro visivo così speciale, quella riflessione sull’interpretazione degli adulti e quella dei bambini, quell’aggancio tra un uomo perduto e la sua voce di bambino, che lo riconduce al vero senso della vita? Le vedo le boe di quella storia, le riconosco. C’è l’amore per una pecora, l’amore per una rosa tra mille, l’amore punto. Ogni capitolo di quella storia, che ha incantato generazioni, è una boa, si trova esattamente dove dovrebbe essere, a disegnare una struttura e dare un ritmo al nostro navigare di lettori.
Il progetto di Imma Vitelli, giornalista e scrittrice, ha preso forma nei mesi di lockdown, della pandemia. In realtà già prima del Covid, Imma aveva insegnato corsi di giornalismo. E condotto alcuni laboratori di scrittura. Ma in questo anno di isolamento forzato ha affinato le sue arti di levatrice delle parole, ha dato una struttura a un suo progetto, un ritmo, una serie di ripetizioni, che hanno creato legami tra i partecipanti, una comunità che cresce, grazie alla sua capacità tutta femminile di accogliere storie. D’altra parte, la forza del laboratorio di Imma è proprio nella sua formazione e nella sua esperienza di giornalista inviata di guerra. Imma ha scritto per anni dai luoghi più conflittuali, complessi, dolorosi e oscuri del mondo. Lo ha fatto viaggiando, recandosi a cercare le storie dove altri non hanno il coraggio di farlo. E in questo ha maturato l’esperienza che ha a che fare con la precisa valutazione del rischio. Quella calibrazione, nell’addentrarsi in zone pericolose, che ti permette di sopravvivere e portare a casa la storia che deve venire a galla, deve essere conosciuta da chi, senza la scrittura del giornalista sul campo, non saprà mai. C’è anche un’esperienza di tempo, di tempismo, nel giornalismo. Hai quel tempo, quello spazio d’azione, devi agire in fretta con tutti i sensi allertati, per capire chi ti consegnerà la storia e capire come conoscerla, ponendo le domande e l’ascolto necessari. Ci vuole un talento intuitivo, una capacità d’ascolto alle sfumature di suono, spesso impercettibili ai più, una empatia che aiuti l’altro a fidarsi di te, aiuti l’altra a consegnarti la sua storia, oltre quello che puoi vedere, sentire con i tuoi sensi. Ma ci vuole anche allenamento, mestiere, coraggio, un coraggio istintivo eppure metodico, ponderato, per addentrarsi nei luoghi del dolore, nelle guerre, nel racconto della vita e della morte.
Imma giornalista la conosco e la leggo da anni. La stimo come una delle poche voci che in Italia hanno voluto e saputo fare giornalismo sul campo, qualsiasi campo, rischiando spesso la vita. In questa sua nuova veste non l’avevo ancora incontrata, potevo solo immaginarla. E l’immagine era già di per sé luminosa, mi arrivava da un bel sogno nel quale mi sentivo accolta. Racconta Imma di aver smesso di fare l’inviata in seguito a un preciso episodio. Nel suo breve ma denso e intenso scritto, intitolato KHALAS EL HARB (2015), descrive magistralmente questo cambio di rotta, che, non è un caso, ha a che fare con un danno al timpano e la perdita della capacità di sentire frequenze alte, tipo il violino di Paganini. L’attacco è questo: “Il ronzio è fioco, un brusio dentro una conchiglia. L’odore è dolciastro, lievemente chimico, di lubrificante per armi (…)”.
È stato questo momento che ha segnato una fine dei viaggi da inviata di guerra. Una scelta che ha immerso la giornalista nella stesura del suo primo romanzo, che uscirà il 29 Aprile per la Longanesi, e che è una storia di amore e di guerra. Attendo il suo romanzo, che ho intravisto nelle fasi del concepimento, con la partecipazione che si ha quando una cara amica, l’amica di una vita, ti dice di essere incinta. Non vedi l’ora di conoscere chi sarà la nuova vita da amare. E in questa attesa ho partecipato a “Esercizi di felicità”. Potevo solo immaginare questo laboratorio, d’altra parte non sono nuova a frequentare gruppi di scrittura, corsi, laboratori, a partire da quelli che seguivo a New York con la giornalista e scrittrice Elisabetta di Cagno. Allora, molti anni fa, venni a conoscenza di Joseph Campbell e del suo “The Hero’s Journey”. E poi qui in Italia, a Roma, prima con la scuola Omero, e da qualche anno con la scuola Genius.
Ma c’è sempre da imparare nel mestiere di scrivere. Non si scrive da soli. ‘Scriviamo avendo stratificato le letture di una vita’, dice Imma. Ed è vero. Non a caso per me leggere ha sempre avuto priorità rispetto a scrivere. Fin da piccolissima. Letture onnivore, a seconda delle fasi della vita, ma non ricordo periodi nei quali non leggevo. E invece ho consapevolezza di periodi nei quali non sono riuscita a scrivere, per vari motivi. Dolorosi, ma non quanto l’idea per me di una impossibilità di leggere. Eppure per chi sceglie di scrivere a vita, per la vita, anche non scrivere diventa doloroso al punto di morirne. E anche questo lo capisco. Negli anni nei quali ho smesso di scrivere sono sprofondata molto in basso, in quella che potrei definire depressione, se credessi nelle etichette per ogni cosa. L’ho anche definita depressione, ma non mi corrisponde del tutto. Purtroppo da ex fisica delle particelle ho maturato un’allergia al riduzionismo, per cui fatico a trovare un nome preciso che contenga tutto quello che ho passato quando ho smesso di scrivere. Ma questa è davvero un’altra storia. Dicevo, sono finalmente arrivata a sperimentare il ritiro di Imma, seppure on line, come impongono i tempi. Eravamo in nove e lei ci ha accolti con il sorriso dell’ascolto. Ho ricevuto spunti importanti, guide generali sull’andamento di un buon racconto, esempi, di struttura e di ritmo, di dialoghi. Ho ascoltato quello che mi è sembrata la vera forza di questo laboratorio: il confronto tra noi (ognuno con la propria immagine in nuce, l’elemento, il dettaglio attorno al quale costruire il proprio racconto) e le domande di Imma, le sue riflessioni a caldo, la sua guida non invadente, misurata, empatica, perché ognuno potesse rispettare la propria voce, il proprio sentire emergere quell’aspetto unico e speciale, da portare a galla con la scrittura. La sinergia che si crea ascoltando tutte le storie è la vera alchimia di questo spazio, ma non potrebbe esistere senza una guida esperta, una voce e un ascolto come solo Imma sa offrire.
Credo che aver fatto la giornalista inviata di guerra per anni l’abbia resa veloce nel cogliere l’essenziale, nel fare le domande che tirano fuori quello che hai da dire, da scrivere. Per ognuno di noi ha avuto una capacità incredibile di stare sul pezzo, di prenderci per mano e lasciarci andare dove era importante che andassimo. Così ho scritto. È emersa una boa. Una di quelle che da tempo sta in fondo ma che sento salire mentre il sale si scioglie mano a mano. Ho scritto di me e di mia figlia. Di quello che ereditiamo e non vogliamo trasmettere. Eppure passa. Della linea femminile che mi attraversa. È un racconto, forse migliore di altre cose che ho scritto su questo tema. Mi sento meglio questa volta, in questa forma, in questa stesura. Ho lavorato tanto per arrivare a questo, sono anni che ci lavoro, Stendo pagine come panni al sole. Poi aspetto che il sale si sciolga credo. A volte rileggo cose che ho scritto in passato, ci attacco un sacco di sale e le lascio affondare di nuovo. In questo tratto di strada, guidata dalla cura di Imma Vitelli, sento di aver fatto un salto. E che questa boa potrà rimanere a galla. Ho fiducia. La fiducia assorbita e restituita, in quello spazio speciale chiamato “Esercizi di felicità”.
Uno spazio dove si scrive tanto, in soli due giorni. Si chiude con il mondo e ci si immerge nel proprio inconscio per dare il tempo a qualcosa di emergere e poterci lavorarci con le parole. Sono state ore intense di lavoro, in gruppo e personale. Di confronto pubblico ma intimo con gli altri partecipanti, e personale, uno a uno, con Imma, che dedica un tempo a ogni racconto per indirizzare, permettere un primo sforzo di riscrittura, limatura, tale da produrre il racconto che verrà letto ad alta voce. Infine ascoltare le storie, prima solo accennate, poi trasformate in piccoli cammei, è la parte magnifica, in cui il sale si è sciolto, le boe emergono, e ci si sente ricchi come quando si è trovato un tesoro. E non è solo un arricchimento personale, un tesoro tutto per sé. È piuttosto una gioia condivisa, un esercizio di felicità, promesso e mantenuto.