Infinito
Pacco dono contenente l’Infinito, ricevuto! Mi viene da sorridere mentre apro un libro che ricevo dalla Casa Editrice Rizzoli, fresco di stampa. Profuma ancora di inchiostro e il titolo è una promessa che so essere mantenuta: “Ritratti dell’infinito. Dodici primi piani e tre foto di gruppo”, di Piergiorgio Odifreddi. Sapevo di questa impresa scientifica, letteraria e artistica, avevo avuto il privilegio di assistere alla sua nascita, durante i mesi del lockdown di questo 2020 ormai al termine, nei quali ognuno di noi ha coltivato il proprio compito Infinito di attingere a quella sorgente che è la nostra stessa vita e farne tesoro, provare a comprenderla più a fondo, nella solitudine imposta, nei limiti reali del nostro essere umani.
In quel tempo, di soli pochi mesi fa, ognuno bloccato nella propria casa, il logico matematico Piergiorgio Odifreddi si era prestato a parlare agli studenti delle mie classi, e in quell’occasione mi aveva raccontato di essere alle prese con un progetto al quale voleva dedicarsi da tempo, quello di scrivere un libro sull’Infinito. Non mi era sembrata una sorpresa. Chi meglio di lui, poteva cimentarsi nell’impossibile impresa di confinare l’inconfinabile? Per di più nella forma di un numero finito di ritratti e fotografie? Conoscendolo, avendo seguito negli anni le sue innumerevoli pubblicazioni, lezioni, conferenze, esperienze teatrali, lezioni televisive, mi era sembrato ovvio che da logico matematico, dedito alla comunicazione della scienza come solo pochi riescono, cercasse di superare anche questo limite, utilizzando la forza della parola e della lingua dei numeri. Ovvio ma non banale, certo, come non lo è raccontare cosa sia la scienza, cosa significhi fare scienza, quali siano i contenuti in ambiti come la fisica, la biologia, la filosofia, partendo dalle fondamenta, dalla matematica appunto, con il metodo della logica matematica, quel linguaggio alla base di ogni scienza, difficile da tradurre in parole, ma non certo impossibile.
Odifreddi in questo è maestro. E credo che il suo segreto sia in una dote fondamentale che ho notato dalla prima volta che lo incontrai nel contesto del Master in Comunicazione della Scienza di Trieste, nel lontano 97 credo… Eravamo seduti accanto, in ascolto di una delle relatrici, durante una giornata di conferenze su temi della matematica e della sua divulgazione. Non sapevo chi fosse, ma la curiosità con la quale partecipava alla lezione, mi faceva pensare a uno di noi, scienziati e scienziate di varia formazione, oppure umanisti interessati alla scienza, che studiavamo per acquistare tecniche di comunicazione della scienza. E invece l’intervento dopo era il suo. Era venuto a parlarci dello zero! Era stato in ascolto tra noi e poi si era trasformato in maestro, conquistando in poche battute la platea. Ho notato allora quanto la sua dote principale fosse una capacità di raccontare argomenti complessi da tanti punti di vista, con una dialettica e una padronanza, non solo della sua materia, ma anche di aspetti filosofici, storici, letterari, artistici, a volte davvero inaspettati, ma sempre profondamente veri, dimostrabili da ragionamenti simili a quelli che si fanno quando si dimostrano teoremi matematici. Le sue lezioni erano già allora uno spettacolo. E hanno continuato a esserlo negli anni, nell’intento chiaro di arginare quella frattura tra “Le due culture”, messa in evidenza per la prima volta dal famoso articolo di Charles P. Snow del 1959, che, fin dal titolo raccontava il conflitto tra scienziati e umanisti.
Da allora ho continuato a seguirlo, da vicino e da lontano, catturando le sue parole soprattutto dai suoi (quanti ormai?) libri, sempre ponte tra le due culture, scientifica e umanistica, che definirle come separate e duali è già un paradosso, perché la cultura è una, finita o infinita che sia, non si può dividere, tutt’al più si può moltiplicare. Ammetto che sono una fan a partire dagli albori, perché già in quel contesto del Master, quando ci esercitavamo a ‘sbobinare’ le lezioni dei relatori che venivano a comunicare le loro conoscenze, a trascriverle come fossero traduzioni in piccoli saggi, ricordo con grande piacere la lettura della voce scritta di Odifreddi, che aveva la stessa capacità attrattiva di quella parlata, dal vivo, in presenza. Sono una fan quindi, non lo nascondo, in altri tempi seguivo letteralmente le sue orme, anche con la scrittura: ammiravo la sua capacità di scrivere di qualunque argomento, trovando all’interno lo spunto matematico da illuminare. Se dovessi cominciare dall’inizio, non credo che riuscirei a portare a termine il compito di raccontare in uno spazio finito tutti i libri scritti da Odifreddi, tutte le iniziative divulgative, teatrali, musicali, di partecipazione a festival, di interventi ovunque in qualsiasi contesto, sempre con l’intento di portare la matematica, la logica matematica, la scienza tutta a incontrare il maggior numero possibile di menti, con l’intento di illuminare quella zona d’ombra, quella discontinuità tra discipline, solo apparentemente separate, ma in realtà parti di un tutto che è la conoscenza.
Quindi parto da qui, da questa opera che ha dell’artistico, proponendosi di illustrare l’Infinito attraverso ritratti, dodici primi piani per la precisione, e foto, tre foto di gruppo. Ma che cosa vuol dire in sostanza? In partenza ce lo spiega lo stesso autore, introducendo il libro come conseguente al suo precedente “Il museo dei numeri”, sempre per i tipi Rizzoli. Quell’opera trattava del finito con un intento irrealistico di viaggio verso l’Infinito. Ma “non si può arrivare all’infinito senza una discontinuità”, spiega l’autore descrivendo il distacco temporale tra le due opere. “I due libri sono completamente indipendenti tra loro, e possono essere letti autonomamente. Non solo, anche i capitoli di questo libro”, continua “sono largamente indipendenti tra loro, e costituiscono le facce di un ideale dodecaedro, che si può osservare interamente soltanto facendolo ruotare nella mano e guardandolo da vari lati, seguendo un qualunque ordine di rotazione. I capitoli sono stati comunque raccolti in tre gruppi di quattro, che si concentrano rispettivamente sulle concezioni dell’infinito dei letterati e degli artisti, dei teologi e dei filosofi, e dei logici e dei matematici”. I tre gruppi si intitolano: ‘Abbozzi e schizzi’, ‘Disegni e quadri’, ‘Fotografie’. Così, già la struttura crea un portale di accesso a una galleria, quale potrebbe essere l’ingresso di un museo della conoscenza di un tema particolare, che comprende tutti i temi possibili e oltre, essendo questo tema l’Infinito.
E allora provo a riportare qualche mia impressione di questa immersione nel museo sull’Infinito costruito da Odifreddi. Come se dovessi raccontare in qualche cartolina alcune delle possibili sintesi di un viaggio in un luogo che molti hanno visitato, ma pochi hanno saputo esplorare con l’abbraccio inclusivo che aiuta a non perdere di vista nemmeno il più piccolo dettaglio.
La prima cartolina ha a che fare con la parola labirinto. Chiunque la incontra almeno una volta nella vita, in senso letterale o metaforico. E sicuramente chiunque associa il labirinto al Minotauro, al filo, ad Arianna. Ma per Odifreddi, il labirinto è il quadro formato dalla parola Inesauribile, che rappresenta il tema dell’infinito nel finito, cioè “un percorso potenzialmente inesauribile che può portare a perdersi in uno spazio finito”. Grazie a questo quadro sono rimasta intrappolata in un breve racconto che non conoscevo dello scrittore messicano Juan José Arreola dalla raccolta “Canti di mal dolor” (1959). Si intitola “El encuentro” in spagnolo (nel volume di Odifreddi è invece tradotto in italiano):
“Dos puntos que se atraen no tienen por qué elegir forzosamente la recta. Claro que es el procedimiento más corto. Pero hay quienes prefieren el infinito. Las gentes caen unas en brazos de otras sin detallar la aventura. Cuando mucho avanzan en zigzag. Pero una vez en la meta corrigen la desviación y se acoplan. Tan brusco amor es un choque, y los que así se afrontaron son devueltos al punto de partida por un efecto de culata. Demasiados proyectiles, su camino al revés los incrusta de nuevo, repasando el cañón, en un cartucho sin pólvora. De vez en cuando, una pareja se aparta de esta regla invariable. Su propósito es francamente lineal, y no carece de rectitud. Misteriosamente, optan por el laberinto. No pueden vivir separados. Ésta es su única certeza y van a perderla buscándose. Cuando uno de ellos comete un error y provoca el encuentro, el otro finge no darse cuenta y pasa sin saludar”.
C’è poi la cartolina raffigurante la parola Irraggiungibile. E a questo proposito mi vengono in mente le parole di Giuseppe Ungaretti in una intervista in cui si racconta poeta: “La parola è impotente. La parola non riuscirà mai a dare il segreto che è in noi. La parola lo avvicina”. Ecco, in questo senso qualsiasi sforzo umano di descrivere con la parola ha a che fare con l’Irraggiungibile. Nel caso dei ritratti di Odifreddi, questa parola si incarna nelle tantissime (e qui l’aggettivo è volutamente non all’altezza) sfaccettature del paradosso di Zenone, su Achille e la Tartaruga, e nell’accurata descrizione di cosa significhi una serie divergente e cosa una convergente. Anche se quello è solo il punto di partenza per cercare di raggiungere, leggendo e rileggendo le profondità di un’algebra che ha a che fare con l’armonia in musica e con il calcolo infinitesimale.
Nel mio vagare da una sala all’altra di questo museo del quale non riesco a intravedere la porta di uscita, una volta entrati ci si sente davvero in un labirinto, di quelli nei quali è bello restare, ogni bivio una nuova scoperta, un po’ come quando si decide che vale la pena continuare a studiare tutta la vita, non se ne esce più, per quanto si vada avanti, l’immensa vastità della conoscenza ancora da esplorare, incomparabile rispetto a quel poco che in un breve arco di vita il nostro cervello e il nostro cuore può aspirare ad avvicinare e comprendere. E questo mi riporta al quadro che riguarda la parola Illimitato, quello che mi è parso il più bello, non fosse altro che per il mio amore adolescenziale per Leopardi, che non ha mai smesso di innamorarmi, con i suoi canti e le sue riflessioni dallo Zibaldone. Infatti come scrive Odifreddi: “I versi di Leopardi ci mostrano la tensione di un poeta attratto da due poli. Da un lato, la realtà esteriore del suo sconfinamento entro il ‘sempre caro’ recinto della tenuta di Recanati, rappresentato dalla siepe e dal colle. Dall’altro lato la finzione interiore di un suo sconfinamento ‘al di là di quelli’, verso spazi interminati e indefinite immensità”. L’immagine speculare di questo quadro è il nostro rimpicciolimento in relazione alla continua espansione degli orizzonti, sia personali che collettivi. Mi fa pensare alla famosa Alice e alla pozione che la ingigantisce e rimpicciolisce, all’Infinito che ci contiene e del quale proviamo a farci contenitori.
Indefinito è il quadro che va a braccetto con Illimitato. E qui si apre la sala dedicata all’arte impressionista, introdotta comunque da una più approfondita e forse logica lettura degli intenti leopardiani che, come lo stesso poeta dichiarava nello Zibaldone, miravano a cogliere l’Indefinito più che descrivere l’Infinito nel suo famoso idillio, dal titolo che diventa più un’esca per il lettore guidato a identificare “nell’indefinito l’essenza del linguaggio letterario”. Da qui all’arte pittorica, il passo conduce al pittore William Turner, che così scrive della sua opera intitolata ‘Tempesta di neve’: “Non l’ho dipinta perché la si comprendesse, ma perché volevo mostrare a cosa assomiglia un simile spettacolo. Per contemplarlo mi sono fatto legare a un albero dai marinai, e ci sono rimasto attaccato per quattro ore. Temevo che non sarei sopravvissuto, ma volevo fissarlo nel caso ci fossi riuscito”.
Forse potrei fermarmi qui, di fronte ai quadri che corredano le parole di Odifreddi, con le immagini di Turner, Monet, Van Gogh, Balla, Seurat, Mondrian, Mirò, Pollock, a quell’Indefinito che attrae lo sguardo e lo perde nei labirinti delle interpretazioni personali, ognuno la sua. Ma non renderei la vera essenza di questo lavoro, che non a caso torna sempre e comunque alla matematica, in ogni ritratto, in ogni quadro, l’ultima parola spetta ai numeri. E così, l’intento dell’autore ci trascina dalle sale piene di immagini e parole, a una ricerca di cosa ci sia “al di là delle parole, delle immagini e dei suoni dell’arte stessa. Se dietro il velo non c’è nulla, allora l’arte è vana, perché si riduce a una forma senza contenuto. Se dietro il velo c’è invece qualcosa di ben definito e determinato, allora l’arte è futile e superflua, perché riesce a coglierlo e rappresentarlo solo in maniera indefinita e indeterminata”.
Una possibile risoluzione di questo paradosso è che non si possa “cedere all’umanesimo il vasto territorio dell’infinito, affinché esso lo costringa entro gli angusti confini dell’indefinito e dell’indeterminato“, come scrive lo stesso autore, passando ai quadri densi della matematica del novecento riguardante le parole Trascendente, Trascendentale e Ineffabile. E qui non mi azzardo a continuare con le mie cartoline, che semplificherebbero troppo ciò che va letto alla fonte. Perché ogni capitolo di questo libro è una miniera. Disponibile a tutti, a tanti livelli. Come spesso lo sono i libri di Odifreddi, ma questo forse un po’ più dei tantissimi altri.
Non riesco ad arrivare alla fine, se non anticipando una strana coincidenza per la quale negli stessi giorni in cui ricevevo il volume di Odifreddi, mi è arrivato per posta il romanzo intitolato “Otto. Tutti siamo tutti”, di Roberta Calandra, Edizioni Croce. In copertina, così come nel titolo, anche questa storia affronta il tema dell’Infinito e lo fa nel linguaggio puramente letterario di una scrittrice più nota per le sue sceneggiature teatrali… per cui non termino qui, come d’altra parte era prevedibile dal titolo, continuerò a girovagare nel mio personale museo di parole per passare da Infinito a Otto (e questo articolo resta così non finito, come è giusto che sia!).