Guardare
“Abbiamo guardato questo dolce per te”, mi dice mio cognato cileno Ernesto. E da lui afferro il verbo guardare, che in spagnolo significa conservare, mi fa notare mio fratello Michele correggendo amorevolmente. Un po’ come riguardarsi in italiano, penso, il senso è lo stesso, proteggersi, curarsi, guardarsi!
Entro nella storica enoteca Costantini a Roma. È un luogo dove si guardano i vini, in tutti i sensi, italiano e spagnolo. Davide, esperta guida in quel mondo sotterraneo, mi viene incontro gentile: “Posso aiutarla?”, mentre mi avventuro nelle diramazioni tra scaffali e scaffali pieni di bottiglie, divisi per aree geografiche regionali, un po’ come mi muoverei in una biblioteca o libreria. “Grazie”, rispondo io, “sono venuta a riguardare alcuni vini”. Inseguivo un pensiero che mi aveva guidata a tornare per due sere di seguito, a esplorare la sezione piemontese. Riguardare suona buffo. E infatti mi viene da ridere. E lui, il mio interlocutore coglie lo scherzo sorridendo: “Allora è una guardona!” Sa anche lui il gioco a cui si presta questo verbo in lingue diverse. E mi racconta di come gli capiti spesso che clienti latini chiedano indicazioni su vini che si possano guardare.
Che poi pensandoci bene, non è così strano che il guardare contenga in sé un atto protettivo. Se non altro perché guardando attentamente si fissa un’immagine, la si ricorda, la si può raccontare, conservare nella memoria, la si può proteggere dall’oblio per tramandarla. E non è guardando la bellezza che nasce in noi l’istinto di proteggerla, conservarla appunto?
Mi torna in mente, come come se fosse ieri, il primo incontro che feci con il senso della vita in un’immagine. Non quella del meraviglioso libro “Che cos’è la vita?” (Adelphi), del fisico Erwin Schrodinger, che si immerse nei misteri della biologia, da grande fisico teorico e quindi esploratore dell’universo in tutte le sue forme. Piuttosto quella di quando entrai per la prima volta nella Hall della Biodiversità, all’interno dell’American Museum of Natural History di New York. Era un’area innovativa di quel magnifico museo in continua evoluzione, una sezione che nacque a metà degli anni Novanta per descrivere, consentendo a tutti i visitatori di guardarla, cosa fosse la biodiversità. Cioè quel bene prezioso, da conservare come facciamo con la stessa nostra pelle, quell’insieme di tutte le specie esistenti sulla terra, che contiene anche noi, la specie umana.
E come possiamo conservarci, proteggerci da estinzione quasi certa, se non guardando i legami tra noi e tutte le altre specie del pianeta? Sono legami spaziali, temporali, biologici, nelle direzioni conosciute e ancora sconosciute, spesso imprevedibili, come si può ben guardare nell’albero della vita, ma ancora meglio vedere nella parete “Spectrum of Life” allestita all’interno del Museo di New York, che ha la pretesa, quasi riuscita, di voler includere in un’unica area finita, tutta la storia della vita sulla terra e tutta la biodiversità che si è andata ramificando da quelle prime cellule del brodo primordiale.
La Hall of Biodiversity a New York è stata voluta e progettata dal grande paleontologo Niles Eldredge, colui che, a braccetto con il collega Stephen J. Gould, ha illuminato passi verso la comprensione dei meccanismi che hanno permesso alla vita di diversificarsi. È loro il modello che titola il volume di Stephen J. Gould, “L’equilibrio Punteggiato” (Edizioni Codice), e che spiega le brusche accelerazioni nella storia evolutiva delle specie che procede invece lentamente secondo la teoria di Darwin.
Eldredge ha curato una mostra che, dal 2005 ha girato il mondo, intitolata proprio al famoso naturalista Charles Darwin, autore de “L’origine delle specie” per Einaudi Editore e primo scopritore dei meccanismi evolutivi.
Come ha fatto la vita, partendo da una cellula senza nucleo ad evolvere nell’innumerabile varietà di specie presenti oggi sul nostro pianeta? Innumerevole perché non è possibile contare con precisione quante specie esistono o sono esistite sul nostro pianeta, ogni giorno se ne scoprono di nuove. E purtroppo questo vuole anche dire che ogni giorno se ne estingue qualcuna, a causa, principalmente, negli ultimi diecimila anni, della nostra presenza invadente e pervasiva.
Con l’invenzione dell’agricoltura, e diventando una specie stanziale, noi esseri umani abbiamo modellato, trasformato, spesso distrutto, intere aree di pianeta, interi ecosistemi, che purtroppo, non sono separabili dalla terra tutta, l’insieme che contiene anche noi, le cui componenti non sono separate o separabili le une dalle altre. Così è stato che, l’agricoltura prima, e l’industria agricola poi, hanno operato come forze opposte alle forze naturali che da sempre hanno favorito l’evoluzione della vita attraverso meccanismi di diversificazione delle specie. Noi esseri umani, di contro, scegliamo una specie di elezione e puntiamo solo su quella, troppo spesso la nostra, mi viene da aggiungere.
Così facendo, in agricoltura, abbiamo selezionato frutti da coltivare, riso da produrre in massa, grano, uno solo, quello perfetto o quasi, galline solo ovaiole, polli quasi costruiti come macchine dalle quali ricavare carne. E questo ci ha portati a evolvere verso una concezione sempre più distaccata e cieca, che non guarda appunto, e quindi non conserva, la rete infinita di legami tra le specie. E se non vediamo i nodi che tengono salda la rete, se non conserviamo i legami che permettono la resistenza, la flessibilità, l’adattabilità di un tale tessuto a ogni uso possibile, cosa ci resterà da guardare, noi abitanti superstiti di una terra vuota di vita, posto che rimarremmo noi gli ultimi sopravvissuti?