Vasca
Le vasche sono quelle che conto mentre nuoto. Ho ripreso a contarle come quando ragazzina mi sforzavo a bracciate di stile di battere il mio stesso record, quello del chilometro in meno di… ogni estate i tempi cambiavano, non sono mai stata un’atleta… Molti anni fa invece la vasca è diventata l’immagine di un appartamento a Brooklyn. Non ci avevo più pensato a quell’appartamento del quale ho conservato un’immagine da cartolina, salvata in uno dei cassetti della memoria: uno stanzone grande, privo di arredi, unico elemento una vasca di metallo laccato, con i piedi saldi e la rubinetteria funzionante, pronta da riempire per il bagno della sera. Perché quella foto sbiadita sia rimasta con me per tanti anni e sia diventata protagonista del racconto che segue non lo so. So solo che il racconto rispondeva alla richiesta di un amico libraio che voleva festeggiare i vent’anni della sua libreria: “Mi piacerebbe creare un volume di racconti la cui ambientazione abbia a che fare con librerie”. Quello che segue è la mia risposta, che forse non farà mai parte di una raccolta di racconti, ma è un modo per emergere dal silenzio prolungato e dall’apnea in cui mi sento, durante questa estate post Lockdown…
La vasca (di Marta Cerù)
Jo usciva ogni mattina da un libro, attraversava le strade mai solitarie di Brooklyn al risveglio e si incamminava sul ponte, perché solo a piedi, in quel passaggio da una sponda all’altra, sopra il traffico incessante, tra i tiranti che avevano retto tante vite in transito, solo in quel frastuono, passo dopo passo, tornava in sé, ragazzo, solo al mondo, arrivato da un paese qualunque dell’America profonda. Prima ancora di lui, qualcun altro era approdato in quel paese, partito dalle coste irlandesi, in cerca di fortuna, quella stessa che Jo aveva trovato da Strand, la più grande libreria newyorkese dell’usato e non solo.
Aveva cominciato come scaricatore di libri, libri in arrivo, inscatolati, da contare estraendoli, etichettare, orientare alla meglio. Qualcun altro più esperto li avrebbe assegnati al corridoio giusto, poi allo scaffale giusto, al piano giusto, in corrispondenza della lettera giusta. Gli scaffali erano alti, di metallo robusto ma freddo, una temperatura non adatta ad accogliere degnamente volumi e volumi passati di mano in mano, nei quali vite umane avevano scelto e riconosciuto le proprie parole, dopo che la penna di un autore le aveva selezionate e accostate scrivendole, sicuro di descrivere proprio quella situazione, proprio quel sentimento, proprio quell’oggetto. Che non sempre ha lo stesso significato per tutti.
Casa, per esempio, per Jo era una vasca piena d’acqua in una stanza vuota. E ancora non aveva trovato, in tutta la sua vita, qualcuno che condividesse la stessa definizione di un nome comune di cosa, dal significato tanto generico quanto personale, di abitazione. D’altra parte è questo il bello delle parole. Una stessa parola può rimanere indefinita e comune fino a che qualcuno non si prende la briga di descrivere con essa un oggetto personale, un paesaggio che ha attraversato, un’emozione passeggera, un sentimento che alberga nel proprio animo, un pensiero da comunicare a qualcun altro, attraverso quell’insieme preciso di lettere.
Durante l’apprendistato Jo si era perso spesso in questo tipo di riflessioni. Oppure si arrovellava attorno ai titoli dei libri che doveva smistare e collocare. Ma dove? E in base a quali criteri? La prima cosa che aveva dovuto imparare era che non poteva fidarsi dei titoli. “I titoli tendono all’attrazione forzata, sono un gancio, un’esca all’amo”, gli aveva spiegato Amy. Libraia certificata, la giovane donna alla quale era stato affidato, aveva una carnagione bianchissima e i capelli di colore biondo nordico. Anche solo dall’aspetto si capiva che aveva passato gran parte della sua vita a lavorare con i libri. E aveva fatto del suo meglio per trasmettergli la sua esperienza: “Devi scorrere velocemente l’introduzione, la quarta di copertina, la breve descrizione dell’autore o dell’autrice, per essere sicuro del posto sommario dove dirigere il volume”. Lui l’aveva seguita fin dai primi giorni e tra loro si era instaurato un rapporto sincero di collaborazione. Era stata lei a orientarlo nel mondo a sé della libreria, un albergo per i libri vagabondi, quelli che, di mano in mano, da nuovi diventano usati. Assegnata una direzione, il libro sarebbe passato per altre selezioni, altri crocevia, fino ad arrivare a una destinazione né troppo precisa né poco, tra un libro e l’altro, in un posto non proprio definito, come i numeri irrazionali tra quelli razionali.
Scalando le prove di competenza, Jo era avanzato sulla scala delle mansioni da libraio, fino al gradino più alto, quello di chi posiziona il libro sullo scaffale, come una badante che presta le sue cure a un vecchio signore smemorato, che non ricorda sempre come tornare a casa. Più di tutto però, dopo aver sperimentato i vari compiti che lavorare in quel posto imponeva di conoscere, Jo aveva deciso che prediligeva il ruolo di cassiere. Da quella posizione privilegiata aveva occasione di osservare chi c’era dietro il titolo generico di lettore, o ancora meglio di lettrice. Si soffermava sulle mani che gli porgevano il volume prescelto, prendeva i libri con una lentezza non esagerata, tale da trasmettere la cura senza indurre insofferenza, e poi alzava lo sguardo sul volto e nello sguardo provava a leggere l’intento, il guizzo di follia che aveva spinto quella persona a scegliere un trattato di botanica, pur non sapendo riconoscere una infestante da un germoglio di grano appena nato.
In uno di quei momenti aveva incontrato lo sguardo di due occhi scuri, incastonati in un caschetto stile francese della ragazza dei suoi sogni. Era bastato un attimo per lasciarlo immobile, incapace di restituire il libro da lei scelto, senza prima averle chiesto la cosa più ovvia ma più difficile da domandare: “Chi sei? Da dove vieni? Sai che questo è il secondo volume di una trilogia? Se vuoi ti cerco gli altri due”. Mentre la fila si allungava insofferente.
Lei aveva risposto con un accento francese marcato ma non respingente. “Non lo sapevo. Mi ha incuriosito la foto di copertina. Una donna che legge nella vasca da bagno. Come amo fare anche io”.
“Se mi aspetti, stacco fra un’ora”, aveva detto lui. “Il primo volume non è qui. Ma te lo posso procurare”.
Lei aveva aspettato, aveva tempo e non le era dispiaciuto addentrarsi tra qualcuno dei corridoi che non aveva ancora percorso. Si era fidata di quel ragazzo gentile, commesso tra i libri, che viveva di libri anche nel suo appartamento, così le aveva detto mentre uscivano, la libreria in chiusura: “Ti porto nel mio regno dove salvo gli scarti, le pagine che nemmeno da Strand trovano un varco per arrivare ai lettori”.
Erano i primi giorni di un luglio ventilato, di una qualunque estate a fine anni Novanta, e Jo aveva proposto alla ragazza di percorrere assieme il ponte, direzione Brooklyn, cosa che lei aveva pensato di fare un giorno, ma non ne aveva ancora avuto il tempo. “Allora, come ti chiami? Io sono Jo, vivo dall’altra parte del ponte a Brooklyn. È lì che credo di avere gli altri volumi”.
“Mi chiamo Pauline”, aveva replicato lei, scandendo quella tipica frase da prima lezione di Inglese. Parlava lentamente, anche se il suo inglese era ottimo. La pronuncia lasciava intuire che non era arrivata da molto nella metropoli che non dorme mai.
“Bene Pauline, piacere di conoscerti, spero davvero che ti piaccia camminare, perché ci metteremo un’oretta ad arrivare dove abito, ma ti assicuro che la traversata dell’Hudson a piedi è una delle esperienze che non dimenticherai! Che ci fai a New York, se posso chiedertelo? Da dove vieni?”
Mentre parlava la guardava negli occhi, e aveva uno sguardo inquieto, più profondo del tono amichevole che traspariva dalle sue frasi. Aveva occhi chiari, limpidi, ai quali Pauline si era affidata già alla cassa, come se le venisse naturale seguirlo, un amico d’infanzia ritrovato in gioventù, riconosciuto appena, la storia dei loro giochi bambini emergente da lontani ricordi, come una eco, un mantra che non si dimentica. Avevano la stessa statura, non alti entrambi, i loro occhi potevano incontrarsi senza che nessuno dei due dovesse alzare o abbassare lo sguardo.
“Sono qui a perfezionare l’inglese. Vengo da un piccolo paese provenzale, sono nata in Francia. Ho sempre sognato di attraversare il Ponte di Brooklyn, ma non sapevo si potesse fare a piedi così facilmente”, gli aveva detto mentre uscivano dall’enorme supermercato di libri.
“Oddio, proprio facile non è, purtroppo per arrivare all’imbocco bisogna aggirare alcuni ostacoli dovuti ai vari snodi stradali, strade larghe, quasi autostrade, per una che viene dai vicoli di un piccolo paese”.
Le aveva risposto così Jo, ridendo con gli occhi, voleva prepararla al rumore, al traffico, agli attraversamenti dei vari crocevia non squadrati come nel resto di Manhattan, che conducevano dall’uscita di Strand in Fulton Street, alla Promenade sul Ponte. La forma irregolare della punta sud dell’isola non permette una scacchiera di strade come nel resto della metropoli. Le vie parallele e perpendicolari cominciano a incurvarsi da Houston Street in giù, per attorcigliarsi sempre di più arrivando al South Seaport o davanti a City Hall, fin sotto il ponte, icona di Manhattan alla pari della Statua della Libertà. Una volta arrivati all’imbocco, si erano uniti alla folla di pendolari, di turisti, di sportivi, che camminano al di sopra delle macchine, incuranti del rumore, delle vibrazioni, dello smog spazzato via dal vento, perché l’emozione di stare sull’acqua, tra le due torri storiche, lasciandosi alle spalle la Skyline della città dalle luci sempre accese, o arrivandoci in senso opposto da Brooklyn, non scialba con l’abitudine. Sul ponte non avevano parlato granché, lui aveva assecondato le pause di lei per gli scatti di rito. Aveva una Nikon 50: “Bella macchina”, aveva commentato lui, “ti intendi di fotografia?” Le aveva chiesto. “Sto imparando, Manhattan è il posto ideale, la luce del cielo è più intensa nelle ore giuste, o almeno così mi sembra!”
“Sarà l’entusiasmo da turista”, aveva riso lui con gli occhi. “Ma è vero. Il fatto che ci sia spesso vento, anche in estate, rende il cielo limpido, nonostante lo smog metropolitano”.
Erano arrivati su una grande piazza di Brooklyn, affaccio del palazzo in cui viveva Jo, in un appartamento prestato da una delle amiche libraie, che era via da un anno e aveva ceduto il suo affitto al ragazzo, per non perdere un buon canone. Jo le copriva una parte della spesa e a lei questo bastava. Gli aveva lasciato un monolocale vuoto in una posizione strepitosa. E Jo ci aveva messo poco a riempire gli spazi di libri, gli servivano solo quelli. Unico arredo, al centro della stanza priva di quadri o altre distrazioni, una vasca da bagno, sul pavimento volumi impilati ovunque.
Ne legge uno per sera, Jo, mentre l’acqua bollente si fa tiepida e fredda e la pelle si imbianca e si raggrinzisce, tranne le mani che tengono il libro, e il volto intento a scorrere le parole dalla prima all’ultima, un libro a sera. Sono gli scarti dei clienti. Coloro che arrivando alla cassa hanno un ripensamento e decidono di abbandonare un volume di troppo dal quale si erano lasciati tentare. Il conto non torna forse? Un altro libro ha attratto la mano compulsiva? O non erano entrati per comprare un libro dopotutto? Forse erano solo in anticipo per un appuntamento ed erano entrati in libreria a tempo perso, per scorrere le pagine di un volume che avrebbero solo iniziato e lasciato lì senza pensarci. Sarebbero tornati dopo qualche giorno, a cercare quel libro, e forse non l’avrebbero più trovato, a meno che Jo non l’avesse messo in salvo tra i suoi, per restituirlo alla malcapitata o al malcapitato, e dar loro la possibilità di terminare una storia che, altrimenti, nelle sue infinite combinazioni, li avrebbe accompagnati a vita. Jo capiva, intuiva il gesto inconsulto e a modo suo lo sanava, recuperava il libro accantonato e, portandolo a casa, lo metteva nella pila immobile dalla quale avrebbe prima o poi attinto, un libro a sera, non ha importanza quale, quanto lungo, di cosa parli, chi lo abbia scritto. L’importante era finirlo, essere forse quell’unico lettore ad averlo assaporato, tutto in una notte, immerso in una vasca colma d’acqua, ogni cellula del corpo intenta a scorrere le parole, dalla prima all’ultima senza interruzione.
A volte l’acqua diventava fredda, così fredda da farlo rabbrividire, ma anche in quei casi non metteva giù il volume, solo la intiepidiva, aprendo per qualche secondo il rubinetto dell’acqua bollente e svuotando di poco nel contempo la vasca dal basso, così da mantenere il livello, l’attenzione viva, il corpo abbracciato dal calore delle parole. Tutto avveniva senza sforzo, senza pensiero o distrazione, un automatismo consolidato dalla pratica, dall’esperienza, quella vasca il ventre di una madre dove rifugiarsi ogni sera per rinascere a vita nuova: eroe di una storia di cappe e spade; vittima di un brutale omicidio; reporter di guerra o amante del viaggio fine a se stesso; scienziato alle prese con la teoria che avrebbe rivoluzionato il pianeta; sperimentatrice attenta nell’ombra di un laboratorio, precisa, puntigliosa, oscurata dal mondo maschile, eppure tale la sua luce da arrivare a illuminare comunque la notte della ragione; musicista, teorico di note e di armonie, o dei meccanismi del suono, della vibrazione di una corda o della risonanza di una cassa; schiavo fuggito da una piantagione; ragazza madre diseredata dalla famiglia.
Tutto questo Pauline lo capì, muovendo i primi passi nella vita di Jo. Anzi lo respirò quando lui le aprì la porta lasciandole il passo in quella stanza che lei aveva sempre sognato di abitare, e che aveva visto nell’immagine del libro vagabondo che teneva in mano. Fu tutto. Fu abbastanza. Fu l’inizio e la fine. Il giorno dopo Jo si mise in cammino sul ponte, solo ma accompagnato da lei, dalle sue carezze, dal suo profumo che aveva addolcito l’acqua della grande vasca condivisa. Impiegò quasi tutto il tragitto fino all’imbocco di Fulton Street, fino all’ingresso della libreria, fino allo scaffale adatto ad accogliere il volume appena letto, in copertina la donna dal caschetto castano immersa in una vasca. Quel gesto quotidiano lo riportò a sé, a chi fosse e perché fosse lì. Qualche scambio di battute con il collega George, un sorriso per Amy, grato e allegro, e poi in cassa, era il suo turno quella settimana.