Astanteria
Il tempo sospeso a casa ha una sua unità di misura, quello in ospedale è astante, ma non per questo meno veloce o accelerato. Ci penso mentre mi attraversa, immersa dopo un tuffo inaspettato. Ero in ritardo come spesso mi capita di questi tempi. Non riesco più a rispettare la tabella di marcia che mi sono scritta e auto certificata. Scendevo che era già buio e dicevo a mia figlia: “E se facessimo una pasta aglio, olio e … prezzemolo?” C’è un folto sottobosco prezzemolato nell’orto dell’uomo dal pollice verde e spesso ne colgo mazzolini, anche solo per il profumo.
Detto fatto, l’imbrunire ormai passato, a tentoni ho raccolto quello che sembrava abbastanza, e in meno di mezz’ora conversavamo davanti a un piatto bianco e verde, dall’aroma primaverile. La serata si è fermata in quel gustare qualcosa di semplice e caldo, senza pretese, senza annotazioni sui dati epidemiologici del giorno, avulsa dai commenti di questo o quel politico, priva delle parole imprevedibili ma sempre aggressive di un presidente dalla cresta gialla che non merita quel titolo, né quello di gallo nel pollaio, al quale pure vuole assomigliare.
Eravamo astanti, se così si può dire, o ancora meglio gustanti: “Sembrano spaghetti alle vongole, ma più buoni”, “Sì, sono più profumati. La vongola lasciamola in mare, questa è la ricetta dell’anno”. Ridiamo, e anche questo è raro negli ultimi tempi. Tanto strano che mi perdo nella sensazione, divento strana anche io, la lingua affaticata e allo stesso tempo inerte, non riesce o non può restituirmi segnali e sapori. È come addormentata. E poi la gola segue lo stesso intorpidimento. Dico: “mi sento strana”, e non riesco a deglutire, come se fosse un lavoro volontario che devo impormi, non succede e basta, non è più naturale. “Riesci a respirare?” Mi chiedono gli astanti, nei loro sguardi un guizzo teso, prima assente. “Si, ma si sta addormentando la gola, la lingua, come dopo un’anestesia”. Sono soggetta a svenimenti, tutti ormai a casa lo sanno. Mi capita ogni tanto, se qualcosa mi impressiona, e basta poco a impaurirmi, fin da piccola ho ricordi affastellati dei miei svenimenti inattesi. Non è quello però stavolta, non mi sento svenire, anche se pensandolo non ne sono più sicura, mi prende la paura, conseguenza o causa dell’intorpidimento che mi pervade?
È così che nel giro di qualche ora sono finita in astanteria, il mio tempo accelerato. ‘Dove arriverò di questo passo’, mi chiedo incredula da una camera della quale non conoscevo il nome. È il luogo dell’attesa, dove il tempo dovrebbe fermarsi, secondo il senso comune, e invece corre via contratto, tutta la vita in pochi istanti confusi, come Einstein ha saputo capire e dimostrare. Voci provengono dal corridoio, passi, movimento, e io penso al disordine che lascerei incompreso. Non posso, non avrebbe senso. Basterà questo pensiero a fermare la corsa, la tentazione all’annullamento verso il quale tutti tendiamo, pur se astanti? Non sono pronta. Mi addormento nella penombra di una notte qualunque, mentre un giovane muore nel paese vicino. L’ultima voce che ricordo è l’allarme degli infermieri, ‘codice rosso’, urla qualcuno dal corridoio, e l’ambulanza parte, perdendo questa volta la sua corsa contro il tempo.
Mi risveglio guarita. Era solo una reazione allergica. Forse al prezzemolo, troppo può far male mi dicono. D’altra parte, ‘sei come il prezzemolo’ non è proprio un complimento. Eppure è una di quelle cose che sta bene dappertutto, mi dico. Un po’ come me, dovunque sto mi accomodo, creo il mio nido, il mio guscio, lo trovo e lo pervado, provando a capire, a rispondere alla inesorabile domanda:
Che ci faccio qui?
Ho sei anni, mio fratello ne ha tre e non parla ancora in Italiano. Imparerà a cinque anni, giusto in tempo per andare a scuola. Nella nostra cucina di allora c’è una grande lavagna dove è steso un foglio bianco. È pieno di parole, quelle strane combinazioni di sillabe che mio fratello usa per esprimere i suoi pensieri. Nessuno lo capisce come me, che sono la sua interprete, lo ascolto e percepisco l’intenzione, il significato della sua lingua. Riesco a dare un senso ai suoi pensieri e alle sue richieste, quelle di un bambino che comincia a dire i suoi bisogni e lo fa in una lingua sua, inventata.
I fogli su quella lavagna sono il vocabolario che tutti usiamo per tradurre la lingua di mio fratello. Che è diventato l’uomo più verbale che io conosca. Parla benissimo inglese, un po’ di tedesco, qualcosa di svedese e di turco. Ha fatto del linguaggio parlato la sua forza, è un affabulatore, un intrattenitore, uno che sa parlare a braccio, un argomentatore di qualsiasi tesi e del suo contrario, a volte un manipolatore, nel senso di uno che riesce nel discorso a ‘rigirarsi la frittata come vuole’. È passato attraverso un suo linguaggio per darsi tempo di imparare al meglio ogni parola e saperla utilizzare.
Mio fratello ha un figlio. Un bambino di due anni, occhioni grandi color cielo nuvoloso, che mi accoglie, mi guarda e mi sorride, regalandomi un calore e una gioia che mi tuffa nel passato. Sono con lui e mi prende per mano per portarmi a esplorare un cassetto pieno di attrezzi, di viti e di chiodi. Mi vuole al suo fianco mentre prende ogni vite, me la porge e cerca dentro l’oggetto la parola. Lui sa che c’è una forma e sa cosa vuol dire, sa che questa vite è un oggetto chiaro a tutti e che ognuno può usare. “Driiii” mi dice per ogni vite, un suono, un verso, che nel mondo delle sue scoperte ha un significato. E se io lo interpreto e lo capisco lui è felice e lo sono anche io.
Osservando il mio nipotino ritorno a essere quella bambina grande che ascoltava un fratello più piccolo. Rivedo quella lavagna e quei segni che vorrei ricordare ma non ci riesco. C’è un pavimento di vecchia ceramica lucida dove io, mia sorella e mio fratello giochiamo a essere pesci nel mare. Ci trasciniamo in terra facendo finta di nuotare e cantiamo una dolcissima melodia che consola un povero pesce di una perdita: “o pesciolino non piangere più” diciamo, e quella canzone è un gioco rimasto indelebile nella mia memoria. Ho sempre amato i pesci, non hanno bisogno di parlare, bastano all’acqua come forme, e il loro linguaggio sono colori e movimento.
Nostro padre ha sempre parlato poco. Per capirlo dovevi interpretarlo. Forse grazie a un padre silenzioso e a un fratello inventore di parole si è sviluppata in me una tendenza al pensiero ermeneutico. Niente per me è come appare in superficie. Ho bisogno di addentrarmi nelle storie e di scriverne, per trovare il senso di quello che vedo o che mi succede. Quando si ride e si scherza io sono sempre l’ultima a intuire le battute. Rido lo stesso delle risate degli altri, le interpreto, e solo mentre sto ridendo arrivo a capire. Ed è allora che rido più forte.
Mi dicono che da piccola osservavo tanto e parlavo poco. E in effetti ancora oggi quando parlo non sono a mio agio. Le mie parole mi sembrano un vestito, qualcosa che ricopre il mio corpo ma non è il mio corpo. È quando scrivo che accedo agli organi attraverso i quali passa il mio sentire e si trasforma in pensiero. Mi sento come un palombaro che ama l’acqua nel profondo. E si tuffa perché non è la superficie a interessarlo. Ogni parola è un tuffo che mi immerge nel mare dove osservare un mondo di immagini che sono chiamata a trasformare in pensiero, il mio pensiero sulla carta per raccontare quel mondo a qualcuno.
Lo stesso mi succede quando leggo. Da bambina mi nascondevo e facevo finta di non sentire, per non dover uscire dal mondo del libro nel quale ero entrata. A volte ho la sensazione che le parole siano chiavi e se riesco a usarle posso aprire porte e addentrarmi nelle stanze delle storie. Ogni stanza una storia, ogni storia una porta, ogni porta una chiave. Entrare a esplorare e interpretare queste storie è come trovarsi davanti ai segni di una lingua antica da tradurre, come davanti alla natura e al suo apparire.
Avrei dovuto studiare le lingue antiche, i classici, imparare l’arte dell’interpretazione in quel modo, e invece ho trovato più attraente tradurre la natura in linguaggio matematico e ho cercato nella fisica la risposta alle mie domande. Così sono finita a rincorrere particelle, e più le rincorrevo, aprendo scatole cinesi una dopo l’altra, più perdevo il senso del mio cercare. E ne soffrivo. Ho passato mesi e mesi in una stanza davanti a uno schermo a scrivere linee di programma, un linguaggio per interpretare dati, cioè per riconoscere due particelle dalle loro tracce di energia in un rivelatore. Il mio minuscolo contributo a un progetto più grande non era altro che creare un programma di simulazione di cosa sarebbe accaduto quando tutto sarebbe stato costruito e avremmo dovuto rivelare cosa succede quando due fasci di elettroni e positroni (anti elettroni) vengono accelerati e fatti scontrare per produrre una cascata di particelle da rivelare. A forza di simulare ho perso di vista chi ero.
Che ci faccio qui? Qual è la mia chiamata in questo ambiente dove non sento più niente? Rincorrere e acchiappare la prossima particella o raccontare cosa c’è dietro questa corsa? Non mi piace correre, ho bisogno di lentezza, preferisco le storie agli oggetti, anche se le particelle proprio oggetti non sono.
Credo che la mia forte miopia sia un po’ la causa della mia difficoltà a progettare il futuro. Mi fido più del naso e spesso non vedo oltre quello. Quando non ho la visuale chiara, annuso, ascolto lo stomaco, e seguo un istinto che mi ha fatto spesso cambiare rotta senza sapere bene dove stavo andando. È così che mi sono avventurata nel mondo del giornalismo. Quello scientifico però, dove ascoltare e studiare le storie degli scienziati, di cosa cercano e scoprono, per trasformarle in un racconto, la mia interpretazione di quel mondo.
Da inviata per un giornale di scienza sono a Milano alla conferenza annuale in cui sono invitati i premi nobel del passato. Ho un appuntamento per intervistare il fisico Glashow, colui che ha unificato in una teoria la descrizione delle interazioni elettromagnetiche e delle interazioni deboli: la teoria elettrodebole. Se fossi una violoncellista sarebbe come trovarmi davanti a Pablo Casals e poterci parlare del suo ritrovamento del manoscritto con le sei Suite di Bach in un negozio di antiquariato sulle Ramblas di Barcellona. Glashow però parla solo in inglese e il mio inglese è quasi inesistente. Lo leggo sui testi scientifici ma non lo parlo e non lo capisco. Mi sono preparata le domande e registro le risposte durante un’intervista a dir poco disastrosa. Non capisco cosa mi dice il grande fisico e mi sforzo di passare alla domanda successiva senza davvero capire il senso della nostra interazione. Il risultato, a parte la pubblicazione dell’articolo, è vomitare l’anima nel bagno della sala convegni milanese.
Che ci faccio qui? Ancora una volta la stessa voce. La sento quasi antica, come se mi parlasse da generazioni. Basta, mi dico, non posso andare avanti senza l’inglese. Devo studiare questa lingua, altrimenti non posso fare questo lavoro.
È così, seguendo questa spinta, che parto per New York, cambio mondo, cambio vita. Lascio l’italiano in Italia e mi tuffo in un contesto che mi consente una possibilità di agire nuova. Un giorno entro in una libreria a Manhattan e aggirandomi tra gli scaffali mi arriva la voce di una donna con un chiaro accento italiano. Presenta un suo libro, un romanzo ambientato in Sud Africa dove ha vissuto. Ha deciso di scriverlo in inglese il suo primo libro, pur essendo l’italiano la sua lingua madre. “In inglese ho trovato una voce che era quella giusta per la storia che volevo scrivere. Ho potuto far emergere una parte di me che avevo represso”.
La ascolto e capisco che la sua vita interpreta la mia ricerca. Da qualche tempo ho cominciato a sognare in inglese, e la voce che mi parla in quel modo mi piace, riesce a scrivere più liberamente, con una leggerezza che non sento nell’italiano. Mi dedico per anni a questa ricerca. Anche perché a New York incontro l’amore e decido di condividere la mia vita con una persona che non ha le mie stesse radici. In quel contesto tutto sembra funzionare, la scoperta di una lingua mi aiuta a crescere, a diventare la persona che voglio essere, scrollandomi di dosso quelle domande esistenziali che forse non sono nemmeno mie.
Mi piace raccontare il Nuovo Mondo, a me stessa e agli altri. Penso in inglese, scrivo in inglese e poi torno all’italiano e scrivo di me, delle mie sensazioni, delle mie esperienze, delle mie emozioni. Mi sposo, divento madre e i figli mi fanno ritrovare un desiderio di radici che vorrei fargli conoscere. E così scrivo per loro e riscopro l’italiano con loro. Non desidero però di tornare a vivere in Italia. Fino a quando il mio naso non sente l’odore della malattia, la puzza di una morte troppo vicina. Non la mia, quella di mio marito, sento la paura di perderlo e di trovarmi sola con due bambini piccoli in una terra straniera, a costruire qualcosa che da sola non ha senso. Da una parte un marito malato in terra straniera, dall’altra i miei genitori con un’esca che profuma di bosco, di erba umida di rugiada, di cielo terso e limpido, pieno di stelle la notte, di legna bruciata nel camino, di campagna dove vivere è un po’ come stare sempre in vacanza.
Che ci faccio qui? Non ho la forza di rispondermi, nemmeno questa volta. E così torno indietro, alla base, alla natura, alla mia natura, o almeno così credo. L’Umbria mi accoglie con l’opportunità di realizzare su una collina un sogno e un progetto: ritrovare legami famigliari, sentire un’appartenenza e farla sentire ai miei figli, costruire uno stile di vita che sia anche un lavoro, per me, per mio marito, per sostenere i nostri figli. Il progetto dell’Agriturismo è il sogno di tutti. Lo capisco ogni volta che un ospite mi guarda e mi dice: “Beati voi. Io sogno da anni di mollare tutto e aprire un agriturismo”. Ma per me non è proprio così. Mi sento persa. Sento di aver perso me stessa. Mi rendo conto che è molto difficile per un americano integrarsi in Italia. In Umbria poi, e per una persona dal pensiero diretto e lineare come mio marito, quasi impossibile. Per anni sono la sua interprete, la traduttrice, il filtro per farlo sentire accolto in una regione d’Italia, nella quale anche io sono straniera. Ci isoliamo e io mi crogiolo e mi perdo in una solitudine che diventa implosione. I figli crescono e ci scuotono.
Può una coppia sopravvivere all’isolamento? Può basarsi solo sui figli, sul lavoro in comune? Cosa abbiamo ancora da darci? Che ci facciamo insieme? Che ci facciamo qui? Per la prima volta, la stessa domanda di sempre non è solo mia. La ascolto in mio marito e mi accorgo che l’adolescenza dei nostri figli, le loro domande sul senso di essere al mondo o di appartenere a questa o quella cultura ci stanno prosciugando di quegli elementi che ci fanno sentire vicini.
Nel compito di educare i nostri figli ci scopriamo profondamente diversi, ognuno con la sua storia, le sue parole per raccontarla, il suo testo scritto negli organi di un corpo sensoriale segnato dalla propria vita, che esprime chi siamo ancora prima delle parole, con le quali ci sforziamo di interpretare noi stessi e gli altri, e quindi i nostri figli. Mio marito vede nei nostri figli la sua storia. Io vedo la mia. E sono profondamente diverse. D’altra parte loro hanno la loro e tutto quello che ci chiedono è di accettarla, accoglierla, non di interpretarla alla luce dei nostri pregiudizi e delle nostre aspettative.
Parlo con un’amica separata dal marito da qualche anno. “Il nostro terapeuta di coppia”, mi racconta “nel periodo in cui eravamo in crisi, ci ha suggerito un esercizio: una sera parla uno di voi e l’altro ascolta e basta, per venti minuti, senza rispondere, commentare, reagire. La sera dopo invertite i ruoli”. “Come è andata”, le chiedo. “È stato difficile ma mi ha fatto capire tante cose. Sapevo di non dover ribattere a quello che mi veniva detto, sapevo di dover ascoltare e basta e mi sentivo più attenta, non reagivo, e il giorno dopo ripensavo alle parole di mio marito senza pregiudizio, senza le emozioni del momento. Dandomi il giusto tempo prima di rispondere mi rendevo conto che quello che capivo in superficie era mio, mi apparteneva, ma sotto c’era quello che mio marito mi stava dicendo della sua storia, senza la mia interpretazione”.
Che ci faccio qui? Perché siamo esseri verbali? Perché abbiamo l’illusione di comunicare in un botta e risposta di parole che volano via veloci, troppo veloci, perché ci si ascolti veramente e ci si possa capire? Dal pensiero alla sua interpretazione e traduzione in parole corre per me il tempo del silenzio e di una penna che scorre sul foglio. Scrivo per interpretare la vita e vivo per scriverne.