Vocabolo
Abito in un lembo di pianeta fuori dalle rotte più battute dell’Umbria. La collina dove mi trovo è a pochi passi dal confine tra una regione chiusa al mare e la più aperta Toscana. Dalla mia strada, Cortona è vicina, in linea d’aria, così come Pienza, Montepucliano e l’arte di paesaggi raccontati dai filari dei vitigni. Da questa parte del confine invece, il racconto si dipana o si arrotola come le foglie del tabacco, che un tempo occupavano quasi tutte le superfici coltivabili, da marzo a ottobre inoltrato. Ora non più, per lo meno tra le colline dove mi trovo e dove chi viene in vacanza a soggiornare nel mio Agriturismo Il Cucciolo arriva per una strada sì comunale, ma sterrata e bianca. Il Comune di Città di Castello non porta l’asfalto nei boschi, così mi disse un giorno un consigliere di non ricordo quale orientamento politico, giurerei fosse verde.
L’indirizzo di questo luogo non contiene l’indicatore Via, o Piazza, o Frazione, o Vicolo, o Strada, o qualsiasi altro nome che avessi mai sentito, prima di venire ad abitare in un posto indicato come ‘Vocabolo’. Ogni volta che mi trovo a scrivere l’indirizzo di residenza, ‘Voc. Figlina‘, una spiegazione si rende necessaria, perché chiamare una strada con il nome dei nomi crea confusione, incomprensione, fraintendimento e alla fine incredulità, come se stessi raccontando frottole, in questa ‘Frittole’ in pieno stile di ‘Non ci resta che piangere’, racconto memorabile di un viaggio nel passato, di Roberto Benigni e Massimo Troisi.
Da quando sono approdata a risiedere in un Vocabolo, una proprietà agricola che ho ereditato da mia madre, che a sua volta assieme a mio padre l’aveva acquistata da colui che in qualche modo è stato mio nonno, mi sono gradualmente abituata a questo indicatore strano, fuori da ogni contesto, raro da trovare altrove, al punto che ogni volta che recito l’indirizzo mi aspetto ormai la domanda di rito: “Che Via scusi? Voc. cosa? Via Vocabolo intende?”
“No, solo Vocabolo, al posto di Via, è un termine quasi solo umbro”, provo a spiegare. Ed è vero che in Umbria è riconosciuto tra quelli che vengono genericamente definiti DUG, Denominazione Urbanistica Generica…
Vocabolo è sinonimo di parola, mi sono detta stamattina all’alba, svegliandomi da uno strano sogno. La casa della mia infanzia rischiava di bruciare, assieme a una pergamena appesa a coprire una finestra dalla quale entravano fiamme a rendere cenere le parole sulla carta. Così, per la prima volta, ho associato il compito che mi sono data, quello di acchiappare parole, al luogo in cui ho vissuto negli ultimi quindici anni. Se ho scelto di vivere in un Vocabolo, non sarà poi così innaturale ritrovarmi a coltivare parole anziché ortaggi, mi sono detta e capita in modo nuovo.
Molto tempo fa scrivevo qualcosa che riguardava mio padre, che non è più eppure esiste in me, nel mio vocabolario, in quello dei miei tre fratelli e di mia sorella… È con me anche lui, abitante in spirito di questo Vocabolo, e così ne scrivevo qualche anno fa:
“Dieci anni fa mio padre ha avuto un ictus. Si è svegliato una mattina e non riusciva a parlare e a muovere il braccio destro. Mia madre lo ha portato al Pronto Soccorso e noi figli siamo accorsi quello stesso giorno. Era spaventato, smarrito, nel letto dell’ospedale. Mi guardava e sentivo che non capiva cosa stesse succedendo. Nemmeno i medici erano sicuri. Vedevano una macchia nel cervello, ma poteva essere dovuta a un tumore. Quella prima sera del ricovero ricordo che ancora riusciva a sillabare qualche parola e ad alzare il braccio destro. Il giorno dopo invece era peggiorato. Non sentiva più la gamba destra, il braccio destro era immobile e se provava a parlare usciva solo un da-da-da confuso.
Il suo percorso da allora in poi è stato lento e doloroso. Ha perso il linguaggio in qualsiasi forma, non parla, non scrive e non legge più. Però è riuscito a rimettersi in piedi, e negli anni a recuperare qualche parola, poche, mai abbastanza. A volte lo guardo nel suo mutismo e penso che è sempre lui, che nulla è cambiato, per quanto ero abituata a vederlo stare in silenzio. I suoi occhi esprimevano tutto, la rabbia, o la concentrazione, o un momento di gioia. Non aveva bisogno di tante parole. E ora? Anche se le volesse le parole non le avrebbe a disposizione. E quando siamo in gruppo, se vuole intervenire in un discorso e dire la sua, ci prova, ma se non riesce subito a farsi capire, cede al silenzio e si incupisce. A volte si alza e se ne va. Oppure qualcuno afferra una parola, capisce, e lui si illumina, continua a comunicare, rompe la diga del silenzio.
Un giorno, pochi mesi dopo l’ictus, quando tutti noi in famiglia ci stavamo abituando a prenderci cura di mio padre, a farcela senza di lui, a sostituirlo, a supportarlo, a prendere in mano, chi in un modo chi in un altro le responsabilità che erano sempre state sue, mia sorella mi telefona e mi dice che ha scoperto che papà aveva comprato tre enciclopedie Treccani per noi figli. Una spesa assurda, che lui si poteva permettere, una piccola eredità.
I libri di arte, le enciclopedie di valore, i quadri e i francobolli erano il suo modo di spendere. E questa volta aveva destinato a noi e ai nipoti un suo lascito. Chissà. Una parte dell’importo era stato già pagato. Restava da pagare il saldo. E mia sorella non sapeva cosa decidere. Annulliamo tutto? Paghiamo noi e ci prendiamo questo regalo? Lei non riusciva a pensare di rimandare indietro l’ordine, perché sentiva che papà non avrebbe voluto. Le ho dato ragione. E così qualche mese dopo mi è arrivata a casa la Treccani integrale. Ha occupato un’intera parete dove ho fatto costruire una libreria apposta. Più un elemento di arredo, considerata l’evoluzione di Internet e di Wikipedia. I volumi sono lì. E quando papà ha cominciato a stare meglio ed è venuto la prima volta a trovarmi li ha visti e ha sorriso. Era felice di averci fatto questo regalo. Tutte le parole in regalo, le sue, quelle di altri, tutte quelle che lui non riusciva più a pronunciare”.
Ci penso spesso a mio padre, colui che davvero amava la campagna con tutto se stesso, e che forse ha potuto realizzare un suo sogno attraverso parte della mia vita. Dico forse perché non sempre ci è dato di conoscere quali siano stati i sogni dei nostri genitori. Se non vivendo i nostri, che spesso tendono inconsapevolmente ai loro. Il mio sogno è stato per molto tempo vivere da formica in una metropoli. L’ho realizzato e ‘consumato’, se così si può dire, per poi tornare a essere una gigante di Gulliveriana memoria, tra le vere formiche, che in questo Vocabolo prolificano in estate, tanto che occorre tenerle a distanza, creando confini e barriere di borotalco. Tra parentesi, per chi non lo sapesse, è l’unico rimedio, il borotalco, che allontani davvero le formiche. E questo anche mi riporta a mio padre, all’odore delle domeniche mattina della mia prima infanzia, quando ancora esistevano le vasche da bagno e il riposo domenicale voleva dire svegliarsi e farsi un lungo bagno, per mio padre, e poi emergere da quella stanza emanando il profumo inconfondibile di borotalco, pronto per la camminata che ci avrebbe guidati a Messa e poi dal giornalaio e poi di nuovo a casa, per il meritato pranzo e riposo.
Ma questa è una divagazione. Mi capita spesso di aprire parentesi negli ultimi tempi, forse perché è così che si fa in Quarantena. Ci si ritrova in un luogo dove ogni centimetro di pavimento, di parete, di finestra, di soffitto, di cielo, di esterno giorno o interno notte, diventa una parentesi da aprire, riempire e poi chiudere, non senza aver assaporato ricordi, quelli di un prima della Quarantena, o anche a volte di un presente che sfugge troppo rapidamente. Non certo di un futuro, che quello è davvero difficile da ricordare, se non forse aggrappandosi al Vocabolo Kaukaipuu, che però non si trova nella nostra Enciclopedia Treccani, né nel nostro Zanichelli…
Il primo Vocabolo nuovo di questa era pandemica, che torna e ritorna nell’esperienza condivisa è Silenzio, mi dico stamattina. Penso che qui, chiusi dai confini frastagliati dei boschi che ci circondano, la Quarantena è una eco lontana, e mi ritengo fortunata e intrinsecamente grata, grata a prescindere. E mentre chi vive in città riscopre il Silenzio, e in esso l’affacciarsi del canto degli uccelli e di altri animali, qui, nelle terre di francescana memoria, il Silenzio è immanente, è una garanzia, e gli uccelli non hanno smesso mai di cantare, sono solo un po’ meno allegri e udibili in inverno, come noi umani del resto, che ci rinchiudiamo in casa al tepore del fuoco e del camino e perdiamo l’abitudine ad ascoltarli.
Il secondo Vocabolo che va per la maggiore è Noia, una strana vecchia parola, che improvvisamente fa irruzione nelle nostre case affollate, temuta solo perché per molti sconosciuta, ma gradualmente riconosciuta ed elogiata, nella riscoperta del suo vero valore, per noi adulti, ma soprattutto per i nostri figli, nel senso dei figli della nostra generazione, e in molti casi per i nostri nipoti, ormai figli smart, nati in assenza di quel sentimento antico, sempre distratti da qualcosa, sempre bersagliati di rumori sovrapposti, informazioni e Vocaboli, di quell’esperanto che forma la lingua dell’era digitale.
Qui invece la Noia è rimasta Vocabolo d’uso comune, parola ben conosciuta, abitante autoctono, di quelli che non si possono ignorare o trascurare. Ci siamo abituati, alla Noia, come tutti coloro, non molti forse, che vivono in un Vocabolo, uno tra i tanti del cosiddetto Vocabolario. Ti giri e non puoi far altro che leggere parole di carta. Può essere noioso a prima vista, ma non trovi mai una parola uguale all’altra, basta solo una lettera diversa a cambiare significati, e ogni Vocabolo ne contiene tanti altri, non solo attraverso sinonimi e contrari…
Siamo qui da un mese, tornati a essere i Quattro Cantoni di un Vocabolo tra i tanti: io, un americano, una sedicenne appena in fiore, sbocciata da poco e pronta a fare strage di menti e di cuori, e un quasi ventenne, tormentato da un futuro che sa già troppo di passato, soprattutto per chi come lui, fin da quando era in fasce, aveva lo sguardo rivolto alla storia, a cominciare da quella dei dinosauri (per non essere troppo vicino al presente). Siamo tornati quattro abitanti di un Vocabolo, come le quattro sillabe che compongono questa strana parola autoreferenziale. E solo ora, quando si comincia a parlare di una possibile fase due, di una uscita dalla Quarantena, provo a iniziare la mia cronaca di un periodo al quale ci stiamo abituando anche noi, che in realtà avevamo una familiarità acquisita grazie alle lunghe quarantene invernali, interrotte solo dalle visite di ospiti attesi e inattesi, sempre graditi all’arrivo e spesso rimpianti poco dopo la partenza.
Come ci siamo arrivati ad abitare un Vocabolo, non essendoci nati, è una storia che ho spesso raccontato ai nostri ospiti, rispondendo al punto interrogativo stampato sulla fronte di chi arrivava in tempi diversi, a trovarci per la prima volta: “Da New York siete venuti a vivere qui? Ma chi ve l’ha fatto fare?” E in effetti la storia ha del rocambolesco, dell’assurdo, sicuramente è avventurosa, come tante storie di chi parte, emigra e ritorna, pur nella banalità tipica di quel tipo di scelte che non puoi non fare quando la fortuna bussa alla tua porta. Avevo un’età in cui è ancora facile essere pioniera, mi ero scelta un compagno di vita americano, che pioniere lo era per cognome: un O’Farrell il cui apostrofo irlandese è indice sì di una seconda generazione nata a New York, ma comunque derivata da suo nonno migrante, partito da una terra sempre verde, non troppo dissimile dai luoghi più nascosti dei boschi umbri.
Come siamo arrivati vivere qui, pionieri moderni in un vecchio mondo, è ormai storia passata. Da allora, ci abbiamo vissuto stabili per una decina d’anni, per poi decidere di strappare quell’aggancio alla Noia e ricercare la città, quantomeno in inverno. Essere tornati qui, tutti e quattro alla base, è invece storia recente, colpa del Covid 19, della Pandemia, della Quarantena. Negli ultimi sei anni io mi ero divisa tra un Vocabolo e una Via romana. Avevamo gradualmente preso strade diverse: io tornata al desiderio mai davvero incenerito di sano stress metropolitano, assecondato bene dall’adolescenza dei figli; il vero pioniere e compagno a distanza, rimasto saldo nella terra umbra e attaccato alla campagna. D’altra parte, una volta trapiantate le radici è quasi impossibile rifarlo, senza rischiare la fine certa dei rami e la sopravvivenza dell’albero.
Negli ultimi tempi eravamo abituati a trovarci tutti assieme, in rare occasioni, nell’unico Vocabolo capace di contenerci senza troppe scintille, e quasi sempre in allegra compagnia di altre vite, che qui si affacciavano per le loro vacanze. Il nostro stare insieme era distratto da altre voci, storie, parole nuove da integrare a un nostro lessico consolidato, ma anche sclerotizzato, tendente a quelle lingue morte che fatichi a riportare in vita. Un lessico che si era adattato alla linfa umbra, ricca di vocaboli catastali, o ancorati alla vita dei campi, ma povera di parole nuove, evolute dai cambiamenti, che arrivano anche qui, certo, ma con il dovuto ritardo.
Soli, nel nostro agriturismo, in Quarantena anche noi, ci studiamo dandoci i dovuti spazi, come i Quattro Cantoni del gioco. Ognuno nel suo angolo di vita, nella sua bolla di Vocaboli, unici ma comuni, nel tentativo di descrivere quello che tutti viviamo. Ognuno ha il suo personale sguardo puntato sul mondo là fuori, ognuno a combattere, grazie a quello sguardo, la propria solitudine esistenziale. Nessuno è arrivato a Pasqua, quando la stagione di norma riapre, non ci è stato possibile accogliere ospiti, come eravamo abituati a fare. Ed è stato così che abbiamo provato ad accoglierci a vicenda, rompendo il gioco dei Cantoni e trovandoci in combinazioni variabili in un angolo o nell’altro di un Vocabolo Quadrato. (…continuerà…)