Pixelata
“Prof. La vedo tutta pixelata“.
“Cosa? Che dici? Non ho capito”.
Sento la voce scherzosa di uno dei miei studenti ma non lo vedo. Mi arriva solo quella strana parola che attraversa lo schermo. La carpisco e mi scappa una risata. Confesso che all’inizio non l’ho capita.
“Pizzellata? Che vuol dire?” Faccio dal mio schermo
“No, a pixel, come a puntini, a pixel, pixelata Prof.”
Ah ecco, spezzettata, scomposta, come un puzzle o meglio un collage, un’immagine che si frantuma quando la connessione rallenta, si perde, va e viene. È così che immagino la mia faccia sullo schermo ai tempi della DAD (Didattica A Distanza). E oramai anche allo specchio mi comincio a vedere così, pixelata! La DAD diventa ogni giorno un po’ più strutturata, un po’ più normale, un po’ più la routine alla quale ci stiamo abituando. Ne parlo oggi di questa parola buffa, anche se l’animo è basso a causa delle immagini in cui sfilano camion militari pieni di bare. E a causa dei bollettini delle sei, con i numeri che aumentano troppo rapidamente. Sale la conta delle vittime di un “piccolo mostriciattolo che non si può vedere, solo i dottori bravissimi lo possono vedere col microscopio, ok?”, come racconta il mio nipotino di quasi quattro anni in un video che mi manda mio fratello, anche questo fatto di pixel, che si animano e mi raggiungono strappandomi una lacrima e una risata.
“Ma dov’è?” Gli fa la sorellina di quasi due anni.
“Non lo so. È in un nascondiglio che non lo sappiamo. Fuori. Ecco perché non possiamo uscire fuori, perché…”
Si interrompe perché intanto la sorellina è passata ad altro, a chiedere qual è il suo piatto, già stufa della spiegazione alquanto scientifica.
Un tempo non troppo lontano vedevo e abbracciavo i nipotini spesso. Un tempo non troppo lontano vedevo i miei studenti ogni mattina. Li salutavo, li guardavo in faccia, li stimolavo a sfidarsi, ad ascoltarsi, a comportarsi in classe come tanti musicisti di un’orchestra, ognuno con il suo strumento, ognuno capace di suonare in armonia con gli altri, cosa impossibile senza la condizione basilare, quella dell’ascolto. Ora siamo lontani. E fuori c’è “un piccolo mostriciattolo”. Che solo i dottori bravissimi riescono a vedere. Noi non possiamo vederlo. Ma possiamo rimanere a casa, mentre chi è in prima linea in questa guerra contro il virus ci protegge. A casa cerchiamo di ricostruire una vita diversa, nell’attesa dell’onda che arriverà, travolgendo soprattutto chi è più fragile e che, ormai l’abbiamo capito, sono le persone in età più avanzata, coloro che rappresentano le nostre radici, la nostra memoria. Anche se questo non è più del tutto vero, non sono solo loro a lasciarci senza un funerale, senza un saluto. L’epidemia non guarda in faccia nessuno, non sceglie in base alla carta di identità, non colpisce le sue vittime con criteri stabiliti.
Ora siamo lontani, dicevo, io e i miei studenti. Eppure abbiamo ristabilito i contatti, grazie a piattaforme come Google Suite for Education o alle tante altre soluzioni all’interno dei Registri Elettronici, che si sono trasformate in luoghi virtuali dove ricreare le classi. Io mi sono messa in gioco velocemente. Non potevo fare altro. È il mio lavoro. E soprattutto sento che in questo momento è il mio dovere.
Non sempre sono nitida, spesso e volentieri appaio pixelata, mentre mi affaccio da uno schermo, e quando sento arrivare le voci, o intravedo qualcuno che attiva il video, mi propendo quasi a volerlo bucare quello schermo, al punto che qualcuno timidamente mi richiama all’ordine: “Prof, vediamo lei non il suo schermo”, quando la mia intenzione è invece mostrare loro il mio schermo condiviso, sul quale mostrare i loro lavori da farmi spiegare in diretta. Che poi se la visuale del mio volto è pure pixelata, davvero non è una bella visuale!
Da due giorni, a forza di rigirarmi tra le mani questa nuova bella parola, ho pensato che io mi sento più che altro abbarbicata, protesa, aggrappata, agganciata, sospesa sullo schermo, immaginando che dall’altra parte ci sia la classe vera, l’aula piena delle vite adolescenti, in fermento e in subbuglio, tese a sviluppare i loro talenti. E più che cercare di sommergere queste vite di parole, o di esercizi, o di lezioni su lezioni, sto lentamente acquisendo nuovi ruoli, a volte un amo, altre un’esca, altre ancora una boa, oppure un salvagente. Lancio l’amo e mi ritorna un carico di risultati, problemi sviscerati, competenze messe in atto, in pratica, ognuno la sua. Ci attacco l’esca di una breve spiegazione o di un problema da risolvere e provare a descrivere agli altri, con qualche nuova app messa a disposizione in questi giorni, che tutti stiamo esplorando, chi più chi meno, per non fermare la didattica, e qualcuno abbocca, capisce e tira fuori del suo, quel qualcosa di unico che emerge grazie ai giusti stimoli, non troppo blandi, non troppo invadenti, non troppo impositivi, non troppo permissivi, non troppo ricette pronte, non troppo approssimative nozioni. Oppure, in questi giorni sospesi, pur essendo le mie materie matematica e fisica, capita che qualcuno voglia parlare del Covid 19. E allora non posso fare altro che diventare boa, un appiglio al quale appoggiarsi e riprendere fiato tra una bracciata e l’altra. Infine, e non è stato il mio caso finora, qualcuno di noi impegnato nelle zone a oggi maggiormente colpite dal numero di decessi, si deve trasformare in salvagente, per chi il dolore lo sta toccando con mano, nella perdita di amici, nonni, parenti, o nella lontananza da chi è caro ed è lontano, da chi vorremmo abbracciare ed è malato. Ieri la lettera di una Preside dalla provincia di Bergamo mi ha colpito fino alle lacrime:
“Scusate. A me la didattica a distanza si è inceppata, avvitandosi su se stessa dopo un’iniziale e scoppiettante partenza. Non sono stati problemi tecnici a farla implodere, e nemmeno forse quelli legati ai limiti culturali o strumentali di alcune famiglie. E’ stato proprio il virus. Un virus che qua … ha falciato nonni, madri e padri in quasi tutte le famiglie dei miei studenti e dei miei docenti. Un’ecatombe. Da qui il crollo psicologico, il dolore chiuso dentro le case che rimbalza senza poter uscire, nemmeno via web. Un dolore che annulla ogni voglia di pensare al “dopo”.Qui nessuno canta sul balcone. Qui nessuno si sente tra i “salvati”. Insomma, il terrore, la depressione, lo smarrimento hanno fortemente influenzato l’iniziale slancio didattico e tutta la buona volontà degli insegnanti e degli alunni. Dovrò lavorare su questo, adesso, e non sui device o sugli aspetti tecnici. E non so da che parte cominciare…perchè non ne sono capace”.
Mi auguro che dai miei pixel traspaia la mia presenza tutta, in questo presente dal quale è impossibile alzare lo sguardo verso il futuro. Ma non lo so se è possibile, non è detto che ci riesca. Nessuno mi ha insegnato come lanciare il cuore e il lato umano dell’insegnamento attraverso uno schermo, passando per una manciata di pixel, ordinati o disordinati a seconda della connessione. Di una cosa sono certa però. L’affetto e la presenza dei miei studenti mi arriva. E in questo senso loro sono la mia àncora da quello schermo. Ci sono, presenti nel presente sospeso, mi tengono ferma, pronta, quando sarà, ad andare avanti, perché ancorata al loro futuro