Protezione
Da giorni cerco di scrivere e lo faccio in modo dispersivo e intermittente. Eppure sarebbe la cosa più naturale in questo momento storico che ci impone distanze spazio temporali da rispettare. Torniamo a scriverci, mi dico, prima ancora che telefonarci, mandarci vocali, inviarci messaggi veloci, ritroviamo la lentezza dello scriverci. Ma non è facile per nessuno, il privilegio di scrivere o leggere non è concesso a ognuno di noi. Soprattutto non è dato a chi è in prima linea e ci offre la sua protezione. Penso a tutti i medici, al personale sanitario nella sua complessità, dal primario al personale infermieristico, ai rianimatori, ai volontari di ogni indirizzo medico, a coloro che manutengono l’ambiente degli ospedali, delle cliniche, dei pronto soccorsi, di ogni luogo fisico dove l’affluenza dei malati di Covid 19 continua e aumenta ogni giorno di più. Proteggiamoli e proteggiamole mi dico. E trovo l’articolo a firma di Claudio Beltramello: Salvare gli operatori sanitari (Rivista Salute Internazionale) a sostegno di quello che dovrebbe essere l’imperativo di tutta la nazione: “Di fronte a moltissimi operatori sanitari infettati in Italia (ed alcuni morti), si impone una riflessione seria sul fatto che ci sia qualcosa che non va nella protezione del personale”. L’autore è medico specialista in Igiene, consulente e formatore nell’ambito del miglioramento della qualità ed organizzazione dei Servizi Sanitari.
Solo pochi giorni fa trovavo invece questa guida a firma di Gaia Manieri, una donna, amica, un medico, che il 6 Marzo scriveva dalla rivista online Sketching Underground: “Siamo di fronte a ciò che non ci aspettavamo. A quello che una società, già provata dal passaggio dall’opulenza alla crisi economica, non riesce a considerare tollerabile: la restrizione delle libertà individuali. La libertà di movimento, la libertà di organizzazione della propria vita quotidiana, la libertà nelle relazioni interpersonali, la libertà di accesso all’istruzione, la libertà di cura. Tutto è ora disciplinato, senza possibilità di scelta“, incipit dell’articolo Covid 19. Sintomo di una crisi.
Comincio allora io, che posso farlo, a scrivere la storia di quello che vedo dal mio angolo di solitudine, e lo faccio ringraziando tutte le amiche e gli amici che so essere su quel fronte. E forse questo potrebbe bastare. Grazie di esserci, di aver scelto quella missione che ora più che mai siete chiamate e chiamati a svolgere. Lo dico da paziente generica, da madre, sorella, compagna, amica, di vostre o vostri pazienti, da persona che forse vi ricordate appena, oppure da amica di alcune e alcuni di voi: grazie della protezione che ci offrite e delle scelte che siete chiamate e chiamati a compiere ogni minuto, ogni ora, ogni giorno.
È da tempo che mi arrovello sulla parola protezione, da quando l’ho trovata nel libro “L’amico fedele” di Sigrid Nunez (Garzanti Editore), circa un mese fa, quando tutto quello che è nel nostro presente succedeva già in Cina e sembrava lontano e impossibile.
La storia è quella di un’amicizia tra una scrittrice e uno scrittore, un’amicizia che potrebbe sembrare una relazione amorosa, e in fondo lo è, ma senza che la relazione sia una relazione di coppia. La scrittrice racconta del suo amico, professore, mentore, un uomo che ha scelto di morire, andandosene in silenzio, solo, senza spiegazioni, lasciando in lei un vuoto incolmabile, del quale lei scrive in una narrazione intima che sviscera il sentimento dell’amicizia e allo stesso tempo il rapporto di chi scrive con la lettura, con la scrittura, con la letteratura, intesa come “amica, confidente, spalla su cui piangere, fonte di gioia e nutrimento inesauribile per l’animo umano”. Al centro della storia un dono inatteso. Il professore prima di morire affida il suo cane all’unica che avrebbe saputo proteggerlo e in questo modo proteggere se stessa. Almeno questo è il senso che ha toccato le mie corde. Incredula lei adotta l’animale orfano e triste e nel rapporto di protezione reciproca tra lei e l’animale, ritrova l’amico, il senso del ricordo, della memoria di lui, di chi è stato per i suoi studenti, per il mondo in cui ha vissuto, soprattutto per lei che in questo romanzo riordina le tracce dei suoi insegnamenti, tasselli di un puzzle da rimettere insieme. Alcuni di questi pezzettini, quelli del bordo del puzzle, che in genere sono i primi ad essere scelti e inseriti per contenere il tutto, sono gli insegnamenti di Rainer Maria Rilke. Perché da lui, dai suoi insegnamenti, l’autrice ha trovato le radici della sua vocazione.
In special modo dalle “Lettere a un giovane poeta” di Rainer Maria Rilke (Adelphi Edizioni). Che è il fulcro della storia, lo snodo attraverso il quale passa il rapporto tra la scrittrice e il cane affidatole, e questo percorso finisce per trasformarli entrambi. “Conosco bene questo libriccino”, scrive l’autrice. “Dieci lettere indirizzate a uno studente che aveva scritto a Rilke per chiedergli consigli quando Rilke stesso aveva solo ventisette anni. L’ottava lettera contiene la sua famosa interpretazione del mito della bella e la bestia: ‘Sono forse tutti i draghi della nostra vita principesse, che attendono solo un giorno di vederci belli e coraggiosi. Forse ogni terrore è nel fondo intimo l’inermità che vuole aiuto da noi’. (…) Diffidate dell’ironia, ignorate le critiche, guardate ciò che è semplice, studiate le cose piccole e umili del mondo, fate ciò che è difficile proprio perché è difficile, non cercate risposte ma amate piuttosto le domande, non rifuggite dalla tristezza o dalla depressione perché potrebbero essere le condizioni davvero necessarie per il vostro lavoro. Cercate la solitudine, soprattutto cercate la solitudine. Ho letto i consigli di Rilke cosí spesso che li conosco a memoria”, continua l’autrice. “Quando lessi le lettere per la prima volta – più o meno alla stessa età in cui Rilke le aveva scritte – ebbi la sensazione che fossero state scritte per me, oltre che per il loro destinatario, e che tutti questi consigli meravigliosi fossero rivolti a qualsiasi persona desiderasse diventare scrittore. (…) Ancora una volta m’imbatto nella sua famosa definizione dell’amore: ‘in questo consiste, che due solitudini si custodiscano, delimitino e salutino a vicenda’”.
In questo senso il rapporto tra la scrittrice e il cane diventa un rapporto d’amore, metafora incarnata del rapporto d’amore tra lei e l’amico che non è più di questo mondo, tra lei e la scrittura, meglio ancora tra lei e la letteratura. Nel mio personale momento di vita ho letto questo libro lontana dal mio cane, Laila, che questo inverno avevo deciso di lasciare in Umbria, mentre accettavo la mia prima supplenza come insegnante di fisica e matematica in un Liceo romano. L’ho fatto per scelta, sapendo quanto il nuovo lavoro mi avrebbe impedito il giusto tempo per occuparmi di lei. Così l’ho lasciata sola. Era in campagna, nel mio agriturismo, con mio marito che se ne occupava, ma senza di me. E cosi facendo mi sono privata della sua compagnia, del suo sostegno, senza accorgermi di quanto mi mancasse, presa com’ero dalla nuova esperienza di relazioni con colleghi e colleghe, alunni e alunne dell’universo scuola.
Poi ho incontrato questo libro, che mi ha fatto sentire quanto la mia solitudine fosse meno ‘custodita’, così come quella di Laila, ma io avevo gli strumenti per proteggermi, mentre lei ne era priva. Ho capito, ma non ho fatto in tempo ad agire. Ho pensato, vado, la prendo, la porto con me a Roma e le sto vicino. Non ho agito subito e in poche settimane l’Italia è diventata zona arancione, le scuole hanno chiuso, infine la zona rossa si è imposta per tutta la nazione. Sono tornata in Umbria. Ho pensato: lavoreremo tutti a distanza. Posso avere Laila vicina, posso starle vicina. E invece lei è morta. Se ne è andata prima ancora che potessi salutarla. Ero appena arrivata e lei già non era più. E mentre la piangevo chiedendomi perché, e con lei piangevo le persone care che se ne sono andate prima di me, sentendomi vicina a mio padre più che mai, a Riccardo, al giovane Oliviero, alle tante persone che ho amato e che mi hanno amata e che non sono più, la parola protezione mi è arrivata dall’etere e dalle trasmissioni di Radio Tre, parola del giorno che ho catturato in riferimento alle azioni di tutti coloro che lavorano per proteggerci da un’epidemia che in poche settimane è diventata pandemia.
Cerchiamo nella solitudine il senso di questa parola da indirizzare a noi stessi e all’altro da noi. Restiamo a casa e siamo responsabili. È l’imperativo etico per tutti. Stare a casa è l’unico modo di non sovraccaricare il sistema sanitario e dilatare la curva dei contagi, abbassando e allargando il picco. Non ce ne siamo resi conto quando avremmo potuto arginare meglio l’inevitabile, ma ora non abbiamo alternative. Abbiamo solo un modo per proteggere le persone alle quali teniamo: diventare solitudini che si custodiscano, delimitino e salutino a vicenda. In altre parole, imparare il verso significato dell’amore. E con questo invito interrompo la mia prima lettera ai tempi del Covid 19. Per chi mi segue e continua a lanciarmi parole, prometto che continuerò a custodirle, proteggerle, e rilanciarle, nel contesto di quello che osservo dalla mia finestra…
Grazie per queste belle, sensate e condivisibili riflessioni. Tutto contribuisce a riempire i vuoti di questo surreale momento, in cui ci si sente soffocare dalle distanze, ci manca ciò che abbiamo quotidianamente ignorato e denigrato, non sopportiamo quello che di solito abbiamo ambito…