Velo
Ho trattenuto la parola velo dallo spettacolo teatrale “In principio era il silenzio (un’ipotesi apocrifa per il Vangelo di Maria Maddalena)”, scritto da Roberta Calandra e in scena al Teatro Cometa Off, per la regia di Antonio Serrano. O forse è più corretto dire che lo spettacolo mi ha aiutata a riconoscere un velo che contemplavo da giorni, ne ascoltavo il fruscio, ne studiavo le forme.
“Come si solleva un velo?” Hanno risuonato in me le parole di un Gesù in movimento tra la luce e l’ombra, un tutt’uno di luce e di oscurità, che dialoga, in quattordici scene, con la Maddalena. Lei, vera esploratrice delle sfumature, non vuole lasciarlo andare, non vuole rinunciare a lui, all’amore, all’attaccamento alla vita. “Quando si prende coscienza che si tratta di un velo! Se lo guardiamo da vicino lo scopriremo bucato dai nostri interrogativi, dalle nostre insoddisfazioni, dalla sete di ringiovanire! Quando vi lancerete in mezzo a quel buco scoprirete il velo di un’altra realtà ancora”, le dice invece Gesù investendola di una interezza e completezza che lei già ha in essere, pur senza averne coscienza. “Le tue parole mi provocano vertigini, sento di perdere ogni equilibrio …” ribatte lei. E lui: “E’ giusto! E’ giusto, lo squilibrio è fondamentale per tuffarsi in ciò che sembra il vuoto, per questa ragione sei venuta a cercarmi questa notte…” (…) E ancora: “coloro che cercano cerchino finché troveranno, quando troveranno resteranno turbati, quando saranno turbati si stupiranno e regneranno su tutto”.
Alla fine del dialogo tra i due personaggi incarnati dagli attori Valentina Ghetti e Mauro Racanati, resta il silenzio, come in principio, il silenzio come possibilità di ascolto interiore, durante uno spettacolo in transito, come la vita. La scena è un binario morto, una camera senza pareti, un luogo di raccoglimento sconfinato, e il silenzio è palpabile, come il buio, pur se scandito dal rumore di fondo del tempo, da chi arriva e chi parte. La fine e il distacco saranno inevitabili ma quello che conta sono le parole, l’ascolto, la presenza capace di accettare ciò che separa, perché ci spinge a cercare l’unione, l’amore coperto dal velo.
Mi accompagna in uscita dal teatro un messaggio, dal testo di Roberta Calandra, un mosaico che brilla di citazioni dai Vangeli Apocrifi: “Impara ad avere fiducia nel presente. Quando farete l’interno come l’esterno e l’esterno come l’interno e il sopra come il sotto e quando farete di uomo e donna una cosa sola, così che l’uomo non sia uomo e la donna non sia donna, quando avrete occhi al posto degli occhi, mani al posto delle mani, piedi al posto dei piedi e figure al posto delle figure allora entrerete nel regno”. Le parole mi ricordano il Gesù di Pasolini, quello di Borges, della tradizione che avvalora la tesi di Maddalena come discepola prediletta e immagine del Cristo stesso, non la prostituta o la moglie, ma una donna vitale, intelligente, illuminata, che aveva con il Cristo una relazione privilegiata fondata su una profonda intimità. È lei la vera erede dei suoi insegnamenti di libertà interiore.
L’attrice sul palco è coperta dal costume di scena, un abito grezzo fatto di strati di iuta e di rete. Ma il suo volto dalle mille sfumature non è molto dissimile dall’immagine della “Maddalena Penitente” della scultura di Canova, al centro della mostra “Canova. Eterna bellezza”, che racconta lo scultore e le sue opere allestita nel Museo di Roma. Ero andata a visitarla nello stesso giorno che si è concluso a teatro. Una mattina di sabato iniziata come un viaggio tra sculture di gesso e disegni dell’artista contestualizzati nella sua esperienza romana. Mi ero svegliata con la parola velo in testa. Il velo del dubbio di essere all’altezza del compito, qualunque esso sia, una stoffa che mi porto addosso da tutta la vita, che si assottiglia o si scosta con gli anni, a volte solo una trina leggera che mi sforzo di sollevare, non sapendo se il mio tentativo abbia un senso.
Qualche mese fa la parola velo mi ha investita dal discorso di un professore di fisica che ascolto impartire lezioni dal web. Sono riprese nelle aule del Mit (Massachusetts Institute of Technology), o fanno parte di una serie di conferenze di Ted, e lui è Walter Lewine, che nell’introduzione al suo corso di elettromagnetismo si presenta con una frase: “The role of a Teacher is to unveil”, ovvero il compito del maestro è di sollevare un velo. Ci penso da giorni a questa frase, che mi piace in inglese perché ribalta la prospettiva del rivelare. Non si tratta di togliere un velo ma di sollevarlo quel poco che basta per riconoscere che esiste, oppure come nel testo teatrale di vederne i buchi e guidare altri nell’esplorazione e nella scoperta di altri veli.
Ecco, con questa frase in testa mi ero svegliata. L’immagine di due lavagne, di quelle scorrevoli verso l’alto, ne riempi una di formule e la spingi perché l’altra possa scendere, ancora vuota, in attesa del gesso e dei segni. Se non cancelli le formule restano lì a guardarti, mentre continui una frase nella lingua di grafici e lettere greche, a indicare un tracciato, svelare una logica dietro aspetti solo apparentemente separati di ciò che chiamiamo natura. Pensavo al velo e vedevo una pozzanghera scura, acqua chiara coperta da un leggero e sottile strato oleoso, tale da creare quel fenomeno che si chiama luminescenza, che si osserva anche nella trasparenza delle bolle di sapone. Lo strato di un materiale che ha indice di rifrazione diverso da quello dell’acqua o dell’aria, colpito dai raggi di luce bianca, ne separa le componenti, le diverse frequenze associate ai colori che vediamo cangianti sul velo di liquido in movimento o su quello della sfera saponata e ariosa che si perde nel vento.
Un anno fa ero a Napoli, ricordavo al risveglio, a occhi chiusi, le bolle dai colori arcobaleno sotto le palpebre. Ero in solitudine come anche oggi, e ritrovavo il Cristo Velato. Quel volto di marmo coperto da uno strato invisibile, una stoffa leggera, le cui pieghe delineano il sonno eterno, l’abbandono in quel luogo dove tutto si placa, la corsa, le tensioni, l’essere in vita. Nel marmo non c’è sentimento. È come osservare la luce bianca, prima che sia riflessa nelle sue colorazioni. Eppure quel velo rende la forma sentimento, separa i colori, regala le sfumature. Se non ci fosse quel velo cosa resterebbe nell’oltre? Mi chiedo. E rimango sola di fronte a tanta bellezza. In ascolto del vuoto che ho dentro e che, nonostante tutto, non trova consolazione o riempimento. Ci sono io, mi dico. Posso ascoltare il fruscio di un pennino che cerca di inseguire pensieri non ancora formati. Li insegue o li precede? Esistono a prescindere se nessuno è in ascolto? L’acqua dalle bolle alla pozzanghera mi ricorda Talete, del quale parlavo a scuola solo ieri, come di un uomo in cerca, un viaggiatore, un visitatore dell’oltre e dell’ombra, raccontato bene dallo spettacolo “L’ombra di Talete” (ne ho scritto catturando la parola Ombra), che sarei dovuta andare a vedere con la mia classe di giovani adolescenti, non ci fosse stato il coprifuoco da coronavirus. Secondo il filosofo è l’acqua all’origine di tutto, Il liquido che scorre anche da fermo, da dove la vita fa capolino, esiste o annega.
Sono questi i momenti in cui il tempo si ferma, momenti di sogno, di risveglio, di un sonno che non ritorna mentre occupo la metà di un posto che un tempo era intero. Mi sento stretta e raggomitolata, ascoltando il mio respiro, velato da un’ansia da esistenza che si avvicina alla soglia dell’oltre ogni giorno di più, senza che ci sia molto altro da fare o da dire. Vorrei trovarmi nel desiderio altrui, ma so che non è quella la strada, o almeno non nell’oggi che mi aspetta. Vorrei pescare ancora tra parole non mie quelle che mi appartengono, annodarle o infilarle formando nodi, collane da indossare, oppure da sciogliere, legare o slegare. Cosa resta di una vita di sbagli, cadute, errori, peccati, slanci sprecati a rincorrere in altri quello che avrei voluto essere? In preda a questi pensieri mi accorgo di aver attraversato quel giorno in più di Febbraio, che unico e solo intervalla quartine. Rende musica il tempo, una pausa di silenzio da ascoltare per ritrovare l’intonazione. Come in una prova d’orchestra. Ma se la prova fosse la prima? Quanti attacchi mancati o battute stonate ci sono davvero concessi?
L’ho fermato quel giorno che oggi è passato. Sono andata a trovare Canova, il suo volto che mi guardava da un autoritratto che rende vivo lo sguardo. E ho trovato inaspettatamente non solo la bellezza di Amore e Psiche, ma l’abbandono di una Maddalena Penitente alla sua forma che regala sentimento. E con lei una donna coperta da una gonna velata. Una leggerissima Ebe, figlia di Zeus ed Hera, vera immagine di giovinezza, di primavera della vita, colei che versa agli dei il nettare che li renda immortali. La sua gonna sottile mi ha attratta come il velo sul Cristo di Napoli. Le pieghe della veste regalano il movimento di una figura altrimenti ferma nel tempo. Gli scatti di Mimmo Jodice chiudono la mostra, una prospettiva in bianco e nero che anima le sculture esposte nei calchi di gesso.
Ed è nel movimento che sta l’azione, qualunque essa sia, spesso per me una spinta del cuore verso l’altro o l’oltre. “Andrò via presto”, dice Gesù alla Maddalena dal palco del Cometa Off. “Non sono dove credi che io sia qui, ma al contempo non più qui, sta a te intendere… Ama colui che ti sfugge, ama colui che se ne va, ama che se ne vada”
“Ma io invece voglio imbarcarmi con te verso terre lontane, regalarti nuove vesti preziose, proteggerti da quelli che ti chiamano folle… Abbracciami, vedo il tuo corpo ma non so dove sei davvero…”, risponde lei già sola e penitente. “Mi hai insegnato che l’amore che va oltre fiorisce senza giudizio, non si manifesta a pezzetti scelti in base alla necessità. Non sfonda porte, ma la sua forza sta nella pazienza”
“Sì, esatto: l’amore costruisce, l’amore non prende nulla. Come potrebbe prendere qualche cosa, dal momento che ogni cosa gli appartiene?”