Confusione
Il sabato della fiera Plpl dovrebbe essere il giorno più facile da raccontare, quel sabato del villaggio pennellato di allegria, fermento, effervescenza, aspettative di incontri tra lettori, autori, editori, tutti nello stesso posto, molecole di gas separati in contenitori diversi e poi uniti in uno solo, quella scatola di vetro di Fuksas, dove sembra che un pistone si abbassi in modo che lo spazio comune abbia lo stesso volume che era di uno solo dei gas iniziali. In chimica o in fisica si direbbe che la pressione aumenta e quindi gli incontri tra le particelle dei gas diventano più frequenti, più probabili e l’energia del gas miscela è maggiore. In questo senso forse la Confusione dei giorni passati si trasforma, l’equilibrio si rompe, la parola si frattura. E’ una Con-fusione: delle idee, del pensiero, di un cuore a due gambe in cerca del libro le cui parole scioglieranno qualcosa, fondendosi con quelle di chi le cerca. Il gioco di parole me lo regala mio cognato Alessandro, grande lettore, che da chimico vede il mondo con quello sguardo alla Primo Levi, uno scrittore ponte, un portale tra la vita e la scienza. Lo incontro assieme a mia sorella Chiara verso sera, ci trasciniamo tra gli stand, scambiando nuovi sguardi, notando nuove copertine, cercando di sovrapporre, incasellare, accumulare, svicolare, ascoltare attraverso il brusio di fondo, e discriminare nella confusione che ci circonda. Confusione è la parola a fine giornata. Come il disordine del caos, che regna ormai sovrano. È normale, mi dico, la Confusione che ho in testa, dopo aver raccolto, acchiappato, ricevuto in poco tempo, quattro giorni che sembrano un’eternità, così tante parole.
Stamattina mi ero mossa con lentezza da casa. Avevo bisogno di ossigenarmi e contestualizzare la Nuvola di Plpl2019, tra le tante che attraversavano il cielo romano dopo il temporale notturno. Volevo arrivare dalla superficie, senza passare dalla metropolitana e, in sella a un motorino elettrico, avevo attraversato Roma con il vento in poppa. Mi sentivo Nanni Moretti in Caro Diario, se non fosse che la Cristoforo Colombo non è la Garbatella e la via più diretta non sempre quella più interessante.
Avevo due obiettivi da raggiungere senza distrazioni. Conoscere la scrittrice Eugenia Rico, che mi era stata consigliata da Angelo Bernacchia, ufficio stampa del gruppo Lit Edizioni. E ritrovare la Rete dei Racconti, incontrando Demetrio Brandi e le amiche e gli amici scrittori che ogni anno si aggiungono al suo pescato.
Angelo l’avevo conosciuto di venerdì, mentre sfogliavo le pagine del Sussidiario di David Riondino (Castelvecchi Editore), un volume colorato e illustrato in cui l’autore prova a mettere in ordine la Confusione dei nostri tempi, raccontando eventi contemporanei, come lezioni illustrate di storia e geografia, in una forma tipica di quei manuali della scuola elementare di un tempo, quella ancora interdisciplinare: un volume bastava per tutte le materie, per il resto ci pensava la maestra. Il testo di Riondino aveva aumentato la mia confusione più che diminuirla. Ma mi aveva dato l’occasione di dialogare con il responsabile della comunicazione per il gruppo Lit, che, all’ombra della Nuvola, come uno degli Angeli di Wenders, nel cielo di una Berlino in bianco e nero, aveva intercettato i miei pensieri, indicandomi la scrittrice che cercavo, senza ancora saperlo. “Ti consiglio di venire domani. Presentiamo il nuovo libro di Eugenia Rico“, mi aveva detto. C’è un lutto al centro della storia intitolata “La morte bianca” (Elliot Edizioni), riguarda la morte di un fratello, la voce narrante la sorella sopravvissuta, che è la stessa autrice. Il tema è difficile, ma lei è una scrittrice di punta per la Elliot, mi aveva detto Angelo Bernacchia e così, fidandomi di una persona gentile e competente mi sono presentata sabato, puntuale all’appuntamento, facendomi strada tra le tante persone che inseguivano traiettorie diverse.
Gli incontri organizzati tra lettori, autori, editori, sono tanti e spesso si sovrappongono negli stessi orari. Scegliere cosa ascoltare, dove dirigersi, è un modo di esercitare l’arte dell’ascolto di sé, dei propri interessi, ma anche degli altri, di quello che ti suggeriscono, a volte anche non conoscendoti. Come è stato per me quando ho seguito il consiglio che mi ha portata a incontrare le parole di una scrittrice che è stata la mia grande scoperta di quest’anno. Mentre ascoltavo Eugenia Rico parlare della sua scrittura, avevo la sensazione che le sue parole si Con-fondessero con quelle che vivono in me assorbite dai libri di un’altra grande scrittrice, che mi rammarico di non aver mai potuto incontrare. Penso a Natalia Ginsburg, per me un faro cosmico, rubo ancora un termine alla scienza, all’Astrofisica per la precisione, che cerca di descrivere cosa significhi provare a comprendere i buchi neri, oggetti inosservabili per definizione, ma tali da produrre effetti su tutto ciò che hanno intorno, effetti visibili se intoniamo la nostra ricerca alle giuste frequenze.
Leggere i libri dei grandi della letteratura è un po’ come intonarsi alle loro frequenze e sentire gli effetti sulla nostra musica personale. Così mentre la Rico parlava, mentre mi arrivavano le sue parole dal libro, lette ad alta voce dal critico letterario Alessandro Mezzena Lona (anche giornalista e autore di romanzi), ad occhi chiusi avevo immaginato, per un attimo fugace ma bello, che stessi ascoltando dal vivo le parole di una scrittrice che non c’è più, quelle che in genere mi arrivano dai suoi libri. La Rico raccontava di aver consegnato il suo libro alla stampa spagnola, solo dopo aver scritto e riscritto diciotto stesure, rispondendo all’esigenza di sentirsi del tutto sicura di aver costruito una cattedrale di parole, di aver fermato il tempo per riuscire a esporre la vita ricercando il vero aspetto dell’incontro con la morte. Perché il processo creativo di scrivere arriva a destinazione quando restituisce opere solo all’apparenza facili, intuitive, impossibili da immaginare in altra forma. Ogni frase sembra la più semplice, ma ciò non vuol dire che sia stato banale trovarla tra le infinite combinazioni possibili di parole. Ognuna la più giusta, l’unica adatta a descrivere la fisicità della vita, dei sentimenti umani, ognuna da cercare con pazienza, in tempi a volte lunghi, con lenti adatte e precise, strumenti accurati, accordati e accorati. Come quelli degli scienziati, in cerca della formula che risponda a criteri di bellezza e semplicità, oltre che di verificabilità!
“Quando ho cominciato a scrivere in Spagna era di moda il barocchismo” ha raccontato la Rico. “Ma per me quando si scrive la vera frase è quella ‘facile’, come quando si guarda una ballerina danzare e i suoi movimenti sembrano naturali, leggeri, facili appunto. La letteratura è in quello che non è scritto, nel sommerso. Perché il vero romanzo appartiene già al nostro inconscio. La cosa più bella è scrivere l’invisibile, lasciare che i vuoti e il non detto siano la scrittura”.
Eugenia Rico vive in Italia ma è di origine spagnola, di Oviedo. In Italia è stata conosciuta con il romanzo “Gli amanti” (Elliot Edizioni), una storia di un’amicizia prima ancora che di un amore. E tre anni fa, a Venezia, le è stato assegnato il Premio Bauer Giovani, nell’ambito del Festival Incroci di Civiltà, organizzato dall’Università Ca’ Foscari. Il libro “La morte bianca” affronta un “tema forte, difficile, ma l’autrice compie il lavoro di costruire un’impalcatura delle parole”, ha detto Alessandro Mezzena Lona. “La figura più importante non è tanto il fratello, quanto la sorella che è viva e che deve reinventarsi”. “Ci sono due vite”, ha raccontato la Rico. “la nostra vera vita comincia quando conosciamo la morte, che è sempre la morte dell’altro. Perché della nostra non possiamo conoscere nulla. Ci sono poi le piccole morti che tutti noi attraversiamo e questo libro voleva essere un manuale di resurrezione”. Secondo la Rico, la letteratura risponde alla sete umana di sogni, ognuno vive leggendo il proprio sogno e un libro non è completo finché non incontra il lettore o la lettrice che ne diventano i registi. Chi scrive ha la funzione di medium. E questa parola l’autrice la riferisce anche agli editori che sanno vedere oltre. “Non c’è vero scrittore senza vero editore. Come lo è Loretta Santini (direttore editoriale di Elliot), capace di credere nei suoi scrittori e nelle sue scrittrici, anche più di quanto essi stessi a volte siano in grado di fare”.
Riguardo alla sua modalità di scrittura e all’importanza della lettura, la Rico ha raccontato: “Scrivo da quando avevo cinque anni e mi sento come una maratoneta, scrivo sempre, anche cose da buttar via, fino a che non sopraggiunge l’ispirazione. In questo percorso si deve leggere molto, a cominciare da giovani quando si deve dialogare con i morti, gli scrittori dell’antichità, poi da adulti ci si può confrontare con i vivi, i propri contemporanei, e solo più tardi occorre parlare con se stessi. Uno scrittore deve dialogare in questo modo con tutte le figure di riferimento, ogni minuto”.
Da “La morte bianca”: “Questo può sembrare un libro sulla morte, ma è un libro sulla vita. Della morte non posso parlare, è un luogo in cui non sono mai stata; quel che mi interessa è ciò che noi vivi facciamo con lei. (…) Se non diventerete come bambini non entrerete nel regno dei cieli. Io divento una bambina piccola e frugo nella spazzatura del ricordo, dove a volte compaiono tesori nascosti. Continuo a cercare mio fratello, il mio tesoro nascosto, anche se trovo solo parole che a volte non sanno di buono e hanno un odore diverso da quello di un tempo. Perché questa è la storia di una ricerca e ogni ricerca ha la sua ricompensa. Continuo a cercare, come Iside cercò i pezzi di suo fratello Osiride, perché se trovassi anche solo un brandello della sua memoria sarebbe sufficiente a cambiare il mio cuore. (…) Da quando mi salvai dal ghiacciaio, la morte bianca ha per me gli occhi di mio fratello. Mio fratello che morì con quasi tutte le pagine in bianco. Con tutta la pellicola vergine, con il contachilometri appena avviato, con il libro della vita quasi intatto. Come se la fine fosse giunta prima del principio. Per questo la sua morte fu bianca. Si portò via tutti i colori e ci lasciò il freddo che taglia le dita, perché quello che manca è più di quello che è rimasto. Perché un romanzo non può fermarsi al primo capitolo. Né una pallottola retrocedere dopo essere stata sparata. Né un uomo morire prima di essere uomo. Ma lui morì a sedici anni e lasciò tutte le pagine in bianco e tutti i capitoli da scrivere, perché non si può accendere un falò in cielo, né pensare al futuro di un uomo morto.
E con queste parole, che ho trovato nel libro della Rico, mentre mi affannavo a dipanare la matassa dei fili colorati catturati durante Plpl2019, chiudo questa cronaca arrivata in ritardo di due settimane, la Nuvola di nuovo bianca, non più pagine o parole al suo interno. Molte ne ho sulla punta della penna, tra le pagine del mio taccuino, quelle della Domenica, della fine, che si trasforma nell’inizio. Come succede quando dalla Nuvola si è costretti a uscire, carichi e svuotati, sicuramente più pronti ad affrontare la vita e attrezzati dei libri che ci hanno scelto.