Alba 1: Aria
LLa mia radio del cuore non va in vacanza. Radio Tre è come me in estate, una piccola formica ‘ammucchiarona’, tra le tante che popolano “Gnòsi delle Fànfole” di Fosco Maraini, gioiello introvabile in edizione cartacea, con le poesie nella lingua inventata dall’autore, che descrive ‘lonfi’, pietre rare, bottiglie e giorni a ‘urlapicchio’.
E gnacche alla formica
Io t’amo o pia cicala e un trillargento
ci spàffera nel cuor la tua canzona.
Canta cicala frìnfera nel vento:
E gnacche alla formica ammucchiarona!
Che vuole la formica con quell’umbe
da mòghera burbiosa? È vero, arzìa
per tutto il giorno, e tràmiga e cucumbe
col capo chino in mogna micrargìa.
Verrà l’inverno, sì, verrà il mordese
verranno tante gosce aggramerine,
ma intanto il sole schicchera giglese
e sgnèllida tra cròndale velvine.
Canta cicala, càntera in manfrore,
il mezzogiorno zàmpiga e leona.
Canta cicala in zìlleri d’amore:
E gnacche alla formica ammucchiarona.
Il motto ‘Radio Tre non va in vacanza’ risuona nelle mie giornate condite da un palinsesto che ogni giorno segue il filo di una parola, la parola del giorno. Qualche giorno fa era Aria, che ho acchiappato al volo, trovando nell’ombrello una sostanza inafferrabile a mani nude, definita da una parola dal contenuto onnipresente. Il termine Aria si respirava tra le note, le parole e le voci amiche delle trasmissioni che seguo nel corso della mia giornata affastellata di cose da fare: dalla lettura dei giornali al mattino, fino ai concerti notturni di Radio Tre Suite.
Apro una parentesi per ricordare alcune delle trasmissioni che considero il mio pane quotidiano: da Prima Pagina, rassegna stampa al mattino, condita degli interventi degli ascoltatori, a Tutta la città ne parla, che approfondisce un tema scelto tra le notizie dei quotidiani che hanno suscitato più reazioni e domande da parte di noi pubblico in ascolto; da Primo Movimento, concerto mattutino, alle Suite concertanti nella notte; da Radio3 Scienza, condotta dalla voce suadente, precisa e competente di Rossella Panarese, ai Gettoni di scienza, piccoli scrigni densi di storia della scienza e degli scienziati narrata da Pietro greco; nell’ora del pranzo, Suona l’una racconta di musica e poeti. Grazie a questa trasmissione ho conosciuto un anno fa i versi di Pierluigi Cappello, che mi accompagnano da allora nella mia personale osservazione della natura, esterna o interna al confine permeabile del mio corpo; nel pomeriggio, durante le trasferte in macchina per le commissioni più svariate, necessarie alle attività estive di un agriturismo, ascolto spesso Fahrenheit, contenitore della caccia al libro del giorno, delle interviste a scrittori e scrittrici condotte da Marino Sinibaldi o da Loredana Lipperini, e della grande letteratura letta Ad alta voce; la sera infine, assorbita dalle attività della cucina, adoro gli accostamenti musicali di Sei Gradi, che mi conduce da un punto all’altro dell’universo musicale onnicomprensivo, con un percorso che non avrei mai immaginato e che si snoda attraverso sei livelli, sei associazioni talmente imprevedibili e personali che nessuna macchina potrebbe competere con gli ideatori umani dei bellissimi percorsi associativi; prima di arrivare alla notte di Radio3 Suite, adoro ascoltare Hollywood Party, un programma grazie al quale una come me, che non guarda la televisione ma adora andare al cinema, può ritrovare le emozioni di vecchie pellicole o ascoltare che aria tira nel mondo del grande schermo, raccontato da Enrico Magrelli e Steve Della Casa.
Chiusa la parentesi radiofonica, ritorno alla parola Aria, tanto leggera quanto densa e importante per la vita su questo pianeta che ci ospita. Acchiapparla e respirarla mi ha aiutata a rompere la diga di un silenzio nel quale mi ero persa, mentre affondavo in quello che potrei chiamare un blocco. Da settimane annaspo in una fase che perdura sempre troppo, nella quale, da scrittrice vera o presunta, non riuscendo a scrivere con regolarità, non mi sento nemmeno più una scrivente, mi sento inceppata, priva di energia forse, di carburante, con conseguenze psicologiche che vanno da quel pizzico di malessere (quando bastano un paio di giorni a rimettere in moto la penna), alla follia conclamata e magistralmente descritta da Steven King nel suo Shining (edito in italiano da Bompiani), dove lo scrittore protagonista della storia è intrappolato nello sforzo inutile di scrivere il suo presunto romanzo, che si rivela essere la ripetizione infinita della frase “All work and no play makes Jack a dull boy”, reso in italiano con il detto“Il mattino ha l’oro in bocca”.
Ci penso spesso al mattino e al suo oro in bocca. Anche perché scrivo meglio al mattino, prima e durante l’alba, ma non sempre con risultati soddisfacenti. Così la parola Aria, catturata da Radio Tre, ha risuonato tra le mie frequenze cerebrali, evocando la freschezza di queste mattine estive e l’abitudine alla quale sono aggrappata da tempo, quella di trovare nell’Aria dell’alba le parole per raccontare i colori di un cielo, che solo una pittrice o un pittore potrebbe aspirare a riprodurre. Non certo una donna semi addormentata che si mette davanti alla finestra e prova a raccontare cosa vede, ogni giorno alla stessa ora, ogni mattina un po’ prima, se il tempo evolve verso il solstizio di Giugno e da allora in poi ogni mattina un po’ dopo, cogliendo quell’attimo che fugge sempre troppo presto.
In questo mi sento spesso vicina alla donna che scriveva il suo diario su un lenzuolo, ora custodito nell’Archivio dei Diari di Pieve Santo Stefano, un posto unico, prezioso, e insostituibile, del quale racconto in parte grazie alla parola Aggrapparsi. La donna era Clelia Marchi e l’Archivio è un deposito e inesauribile di memoria collettiva, formata da particelle di memorie individuali, tante quanti sono i diari, le lettere, gli scritti, donati da chi ha avuto il coraggio e il desiderio di inviarli o portarli all’ideatore del progetto, Saverio Tutino. Oggi sono i suoi successori che continuano a tenere in vita il luogo della memoria.
Ecco dove mi ha portata l’Aria acchiappata ieri, ascoltando le voci che amo. Ripensandoci a posteriori, ho preso la parola e l’ho interpretata nel senso letterale, mentre forse la programmazione radio voleva riferirsi al significato di Aria in musica. In ogni caso, la spinta per me è quella di ripartire dalle mie albe e dedicare un piccolo spazio di Wordfetcher al cielo mattutino, che spesso tento di afferrare e rendere in parole anche in modo frettoloso (mi perdoni chi mi segue). Proverò a rendere continuo il mio sforzo discontinuo di descrivere l’immagine cangiante dell’astro che ci illumina, come lo osservo ogni mattina sporgersi e apparire da dietro le colline della mia casa agriturismo.
Oggi le nuvole schermano il sole e il gioco di luce che attraversa gli strati di aria mattutina è quello che preferisco. È come guardare attraverso la mia oscurità sempre presente, più o meno densa, e scorgere in essa la potenzialità di luce nascosta, che brilla anche da lì, da dietro le forme delle nuvole: cirri, cirrocumuli, cirrostrati, altocumuli, altostrati, stratocumuli, strati, nembostrati, cumuli, cumulonembi, forme descritte magistralmente in un libro che trovai molti anni fa, girovagando per lo Strand Bookstore, la più vecchia libreria dell’usato newyorkese. Si intitola “Nuvolario”, e lo conservo gelosamente, salvandolo dalle selezioni dei miei numerosi traslochi. Ci pensavo in questi giorni mentre osservavo le nuvole all’alba e sono andata a riesumarlo dalla libreria scoprendo che l’autore è proprio quel Fosco Maraini di “Gnosi delle Fanfole” e l’editore è Marsilio. Lo ha scritto con il suo linguaggio che pesca nella letteratura, nella poesia, nella filosofia: “E’ pacifico che qualora l’atmosfera terrestre fosse ridotta e qualche tenue lago di gas raccoltosi al fondo delle depressioni fra le montagne, come pare sia il caso per il nostro satellite la luna, è pacifico, diciamo, che non potrebbero in alcun modo aver luogo quelle molteplici sospensioni di vapori note sotto i nomi di nuvole, nebbie, caligini o foschie. Saremmo inoltre privati di buona parte dei colori dell’aurora e del tramonto, nonché degli arcobaleni, delle aurore boreali, delle stelle filanti e di svariati altri fenomeni meteorologici e astronomici”. La ricchezza delle descrizioni è corredata dalle foto di Fulvio Roitier, che così descrive il suo lavoro di fotografo concentrato a catturare immagini di nuvole: “Molte immagini di questo libro sono state realizzate senza uscire di casa. O se uscivo tutto accadeva poco lontano. Ci sono tramonti fantasmagorici in Amazzonia come in laguna; scenografie di nuvole dalle forme più strane e mutevoli che si possono osservare nei cieli messicani come in quelli dove viviamo. Le nuvole non sono esotiche. A dimostrazione che sotto qualsiasi cielo vediamo sempre le stesse cose, quelle che portiamo dentro di noi”.
A volte per me le nuvole sono accumuli di dubbi in maschera o di maschere del dubbio. Fino a quando, cercando il silenzio, lasciando andare la penna, srotolando o dipanando un filo ingarbugliato, non arriva il giorno e non mi trovo costretta ad affrontarlo, grata di trovare attorno a me chi è in vacanza mentre io lavoro. A volte capita che io sia invidiosa o sofferente, ma più spesso sono davvero felice dei sorrisi che ricevo, delle dinamiche, delle melodie e delle sfumature, che sento provenire dal canto di cicale di passaggio come me su questa terra, tra questi confini boschivi, immerse a far parte di un cielo, che basta solo alzare gli occhi per vedere. Me lo ricorda Breon, di alzare gli occhi al cielo al tramonto, ci chiama, me e i nostri figli, aggrappati alle nostre frenesie del fare e disfare, e ci dice: “Come, look at the sky. Isn’t it beautiful tonight? Don’t miss it, don’t miss the last light of the day!” E ci regala così la forza, l’energia, la speranza di riuscire ad affrontare la notte, stesso buio per tutti, diversa oscurità in ognuno. Soli o insieme, il sonno ci abbraccia, pur se a volte lo rifuggiamo. Forse non capiamo quanto il silenzio dell’Aria sia la nostra vera salvezza, perché ci consente di ascoltare a fondo chi siamo, cosa siamo, quando siamo, dove siamo, perché siamo, come se ponessimo a noi stessi le domande alle quali un buon pezzo di giornalismo deve rispondere e indicate con le 5W: Who? What? When? Where? Why?
Sarà stato un caso che il mio approdo nella Grande Mela, in quella New York dove ero andata per diventare una vera giornalista, non solo una fisica che provava a scrivere di scienza, sia stato un appartamento al quinto piano del condominio nel Park West Village, numerato come 5W?
Ascolto
Risoluto
Immenso
Assenso
Amorevole
Luce
Brillante
Ancòra (o Àncora?)
(continua… )