Lingotto 3: Sebastiano
[…Segue…] Il giorno prima di partire per Torino e immergermi nel Salone Internazionale del Libro, ho finito il libro appena uscito di Verde & Oriani, “Tutta la vita dietro un dito. Per ritrovarsi bisogna perdersi” (Romanzi Salani). Ho pensato spesso alla storia di questo romanzo ambientato a Torino, girovagando per la città. E ora che sono tornata a Roma, voglio provare a scriverne come di un evento del Salone Off, tra quelli che si svolgono prima, durante e dopo la fiera, e che ne allargano il senso alla vita cittadina, quotidiana, portando il Salone nelle case di tutti, come faceva mio zio quando ci riportava i libri scelti a Torino e li esponeva nel suo salotto ad Aprilia, dove abitavamo.
Il libro è scritto a quattro mani, e questo mi ha fatto pensare a una partitura musicale: un brano per due pianoforti, per piano e violino, per un duo di archi. È più difficile scrivere in due immagino, ma sicuramente è un processo che facilita il raggiungimento di un equilibrio. E infatti la scrittura è sul filo, come direbbe Philippe Petit, è sospesa. C’è un equilibrio perfetto tra dentro e fuori, tra il mondo interno del protagonista Sebastiano e dei vari personaggi che via via gli si affiancano, e il mondo esterno, quello dove le cose accadono, ci si incontra, ci si perde, le persone nascono, muoiono, le macchine lavorano, si inceppano, richiedono manutenzione, evolvono grazie alla cura dell’operatore e grazie al progresso della tecnologia.
“Sebastiano scivola dietro la porta a soffietto. Quella non è soltanto una porta: quella è la frontiera tra il mondo di dentro e il mondo di fuori, e lui se ne è fatto da tempo una ragione: le cose pazzesche succedono soltanto nel mondo di fuori. Se lavorasse nel mondo di fuori, probabilmente la giacca che sta provando a infilarsi alla velocità di una scansione laser gli calzerebbe a pennello. Invece no: ha le maniche troppo corte, i polsi gli spuntano fuori come paletti.”
Nel caso di questa storia, Sebastiano, il personaggio principale, lavora in una copisteria, dietro quella porta a soffietto che lo divide dal mondo di fuori, e le fotocopiatrici, le uno, la due, la tre, sono le sue interlocutrici, le sue compagne di viaggio, le voci fuori dal coro, dalle quali il ragazzo trae conforto, ispirazione, balsamo per lenire la solitudine esistenziale, quella che ha cominciato a percepire la prima volta che si è sentito sparire, per sua madre, per i compagni di classe, per un mondo del quale non riesce a fare parte, se non inseguendo le vite perdute dietro i necrologi.
La narrazione è scandita da pause. Pause di annunci mortuari, che non si possono non leggere, trafiletti di giornale cerchiati, che contengono in poche parole una vita, quella di qualcuno che non c’è più, è in pausa da questa forma umana per l’appunto, e fa da contrappunto musicale al rumore dei vivi, al loro muoversi, crescere, perdersi e a volte avere la fortuna di ritrovarsi. Sebastiano li scorre sulle pagine dei quotidiani e occupa il suo tempo libero partecipando ai funerali di sconosciuti in una Torino che si snoda attraverso le chiese dove rivolgere l’ultimo saluto a una persona che ci ha lasciati. Sembra quasi che Sebastiano abbia preso alla lettera una vecchia canzone di Enzo Jannacci:
“Si potrebbe andare tutti quanti al tuo funerale
Vengo anch’io? No tu no
Per vedere se la gente poi piange davvero
E capire che è per tutti una cosa normale
E vedere di nascosto l’effetto che fa
Vengo anch’io? No tu no.”
Lo fa per sentirsi vivo, guardando in faccia la morte? Perché sono più vivi i morti nelle loro bare che sua madre ferma in una casa che è diventata l’urna delle ceneri di un padre che non c’è più e la prigione di una donna viva ma immobile, nel fermo immagine di quel funerale in cui ha dato l’ultimo saluto all’uomo che ha amato?
La casa di sua madre è un contenitore vuoto di affetti, ma pesantissimo di oggetti inanimati. È in questo luogo che “la signora Dutto siede in poltrona, dritta, le punte delle scarpe unite, le mani poggiate sulle ginocchia. Sotto al grembiule, il lembi della gonna le formano due angoli acuti intorno alle gambe, come i vestiti delle bambole di carta che si ritagliano dai giornali. Il salone odora di chiuso. (…) È come se la casa fosse caduta in un baule e qualcuno, distrattamente, avesse chiuso il coperchio.”
Ogni volta che torna a trovare sua madre, Sebastiano la ritrova ferma nel tempo e nello spazio, uno specchio alla sua stessa immobilità, alla sua vita invisibile a tutti, precipitata in un buco nero dal quale il ragazzino adolescente sente di non riuscire a uscire anche dopo gli anni crudeli delle medie: “Ho cominciato a sparire un giorno a scuola, alle medie. La mia classe era riunita in cortile per la foto. Io ero in piedi nell’ultima fila: guardavo dritto nell’obiettivo, ma al momento dello scatto quello davanti a me alzò una mano, e nella foto un dito di quelle mano finì proprio davanti alla mia faccia. Il fotografo non se ne accorse, la prof nemmeno, non se ne accorse nessuno. Era come se quel dito avesse aperto una botola e io ci fossi caduto dentro. È così che sono scomparso la prima volta, dietro quel dito.”
Quello che mi resta impresso della scrittura sono i dettagli piccoli e precisi, mai superflui, ami che pescano l’immagine nascosta e la sollevano dal profondo, la rendono visibile a tutti e permettono al lettore di identificarsi, di calarsi nella scena immedesimandosi e lasciando fluire le emozioni. Anche io ho avuto i miei momenti in cui sono stata Sebastiano e leggendo li ho ritrovati tutti, ognuno un pezzo di vita, ognuno una storia che mi riguarda, dove ho riso, ho pianto, sono stata ferma, immobile, invisibile, oppure mi sono mossa, ma troppo velocemente, sono fuggita a gambe levate, senza una mappa, una direzione, e mi sono persa.
Mentre leggevo ho ritrovato elementi della scrittura di due autori che amo. Come la sensibilità di Jonathan Safran Foer nel suo “Molto forte, incredibilmente vicino” (Tascabili Guanda), la storia di un ragazzino che, avendo perso il padre nell’attentato alle Twin Towers , quella mattina dell’11 Settembre del 2001, comincia una caccia al tesoro in cerca di se stesso, costruendo una rete di relazioni e trasformando il dolore della perdita nella realizzazione della sua personale missione.
Come la cura del dettaglio e la precisione quasi geometrica, della narrazione di Mark Haddom nel suo “Lo strano caso del cane ucciso a mezzanotte” (Einaudi). Anche questa è la storia di un ragazzino disadattato, emarginato, diverso, ma capace di mettersi in viaggio alla ricerca del suo senso nel mondo. La storia di Haddom è stata adattata per una versione teatrale a Broadway (lo spettacolo si intitola “The Curious Incident of the Dog in the Night-Time”) che andai a vedere anni fa, trovandola magnifica. Sul palcoscenico, una griglia virtuale rappresentava il modo di guardare del protagonista, il suo pensiero geometrico, quello di un ragazzino di quindici anni che ha la sindrome di Asperger, che decodifica la vita attraverso i numeri, la geometria. E mentre leggevo il romanzo di Verde & Oriani ho provato quella sensazione di essere in platea, catturata nello spettacolo e nella storia dalle immagini che arrivavano da sole a pizzicare le corde del mio animo.
Gli autori Verde e Oriani sono una monade, o forse hanno trovato la voce intonata per essere sul filo in due e la loro scrittura crea in chi legge quella sensazione di Sospensione necessaria perché una scrittura diventi letteratura. Non a caso il loro libro è stato segnalato alla XXXI edizione del Premio Italo Calvino, “per la sensibilità, la gradevolezza e l’ironia con cui viene declinata una microfisica finemente surreale”.
Il nome del protagonista, Sebastiano è anche il nome sulla copertina di un libro arancione, che ho notato entrando in casa di Lelia e Carlo a Torino, che mi ospitavano nei giorni del Salone: “Storia del gallo Sebastiano”, di Ada Gobetti (Edizioni di Storia e Letteratura). Lelia lo ha regalato a mia figlia e in treno, di ritorno a Roma, ho cominciato a leggerlo. Lo avranno letto Verde e Oriani? Mi sono chiesta. È la storia di un altro Sebastiano, di un’altra epoca, simile a quella di Gian Burrasca, la storia scritta dalla moglie di quel Piero Gobetti, morto nel 1926 a Parigi in seguito alle conseguenze di una bastonatura fascista.
Il Salone è stato preceduto da un mare di polemiche dovute ai venti risorgenti di un fascismo che si nasconde dietro maschere facilmente riconoscibili, ma non sempre. Come quella della casa editrice che aveva comprato la presenza al Salone e che per fortuna ne è stata estromessa. Mi sembra importante trascrivere le parole dell’introduzione di Goffredo Fofi che presentano la storia di Ada Gobetti, di suo marito Piero e suo figlio Paolo, al quale la storia del gallo Sebastiano sembra rivolta e ispirata. Sono parole attuali, di una storia che non possiamo e non dobbiamo dimenticare:
“Si può ricavare una morale antifascista dalla storia dell’irrequieto Sebastiano, tredicesimo di una covata che avrebbe dovuto essere, abitualmente, di dodici uova. L’avventuroso galletto è l’imprevisto, l’irregolare, il fuori schema che terrà fede all’originalità della sua nascita fuggendo avventurosamente nel mondo, alla scoperta dell’altro, con una forte comprensione per l’insolito e per l’esotico (…) Ci si conosce e si cresce al confronto con gli altri, col mondo. Le cento vicende e i cento incontri del galletto Sebastiano solo le palesi proiezioni dell’irrequietezza di un Paolo reale, ispiratore ed eroe del romanzo scritto dalla madre, quel Paolo che tra il 1943 e il 1945 sarà un giovanissimo partigiano (…) In mancanza di un padre, Sebastiano-Paolo ebbe pensi una specie di nonno, il saggio Calisto (…). Nella distinzione del saggio Calisto di due modi di essere(ma anche di scegliersi, di vivere) ritroviamo una distinzione che ci appare oggi come ieri fondamentale, e della quale sarebbe assai bello che anche i giovani di oggi potessero tenere conto, quella tra le bolle di sapone e le biglie di argento”.
Nella storia che si dipana mentre il gallo Sebastiano vive le sue avventure, questa è la descrizione di nonno Calisto:
“Vedi – disse Calisto, passandosi un’ala sulla cresta – I tuoi fratelli son come queste bolle: ottime, simpatiche creature, a vederle dal di fuori, ma dentro, in fondo, non hanno nulla… nulla almeno di quello che conta. Per questo ti pare che ti respingano: invece non fanno altro che difendersi; hanno paura, venendo a contatto con te, o anche tra loro, di scoppiare, d’esser distrutti e scomparire. E perciò ognuno sta a crogiolarsi nel suo involucro, felice della sua bolla d’aria.
E che cos’è quest’invoucro che li circonda, che li difende? –
Si chiama ‘egoismo’, – (…)”
Calisto mostra a Sebastiano delle palline d’argento.
“Bene, prendile, falle correr per terra, falle battere insieme. Vedi che non si rompono? Che anzi, più forte le batti e più alto e armonioso è il suono che mandano? (…)
E che cos’è questa musica, questo suono così dolce e armonioso?
La musica dell’amicizia, caro. (…)
Ma che cos’è che rende alcuni simili a bolle, altri simili a palline d’argento?
È quello che non so… quello che vorrei sapere,,, quello che morirò senza sapere… – disse Callisto, passandosi di nuovo l’ala sulla cresta con un gesto di malinconica stanchezza.”
Tornando al libro di Verde &Oriani, anche la loro storia ha a che fare con una Dualità: un dito può essere un impedimento che ci nasconde a vita oppure può indicarci la via, puntare verso la direzione che ci farà uscire dal tunnel e ritrovare la strada, diventare l’inizio di un cambio di prospettiva radicale. Solo dandosi per disperso e radunando persone, anche loro un po’ perse, Sebastiano si trasforma e, nell’impresa di cercare se stesso, trova amici veri e afferma la sua autenticità, in opposizione all’egoismo imperante e al bisogno di apparire, quello stesso delle bolle descritte da Calisto al suo gallo Sebastiano. […Continua…]