Pavone

Pavone

Febbraio 5, 2019 1 Di Marta Cerù

Tempo fa ho incontrato un pavone nel quartiere di Roma dove vivo quando non sono in Umbria. Era una sera di Giugno e in via Crescenzio mi è apparso sulla targa di un locale che non avevo mai notato prima. Lo sbandamento è una sensazione famigliare a causa dei miei frequenti spostamenti. A volte mi sveglio, non riconosco dove sono e in quell’attimo potrei trovarmi ovunque, in un tempo che esiste solo nello spazio di un sogno. Mi sono fermata di fronte al locale, sorpresa di non vedere più un piccolo bar. Lo ricordavo come uno di quei baretti per frequentatori abituali, un caffè e via, tramezzino e due chiacchiere, se hai tempo di sederti per una sigaretta. I tavolini esterni erano pochi e poco curati, al punto che poteva capitare di prendere un caffè con un amico, di chiacchierare per quel tempo che non è mai abbastanza, salutarsi e, passata qualche ora, trovare ancora le due tazzine allo stesso tavolo, vuote ma usate e testimoni di un bacio abbottonato in un giustacuore che mascherava un addio da arrivederci. Per fortuna il baretto c’era ancora e con esso il ricordo delle due tazzine riprodotte sulla tela dall’amica Valeria Naldini, simbolo di un incontro che sarebbe potuto durare una vita invece del tempo di un caffè.

Accanto al bar si era posato un pavone di nome Emerald’s, un locale nuovo e foriero di promesse dai colori verde smeraldo e blu lapislazzuli come un mare profondo. Entrando a curiosare avevo conosciuto Aldo Nascimbeni, maglia a righe bianche e blu, capitano di una nave appena approdata. Davanti a un bicchiere di Chardonnay, seduta su un divano di velluto color carta da zucchero, avevo potuto osservare le pareti piene di quadri, piccoli e medi, dalle cornici di gusto antico, per esibire foto, dipinti di paesaggi, immagini di animali, in bianco, nero e seppia.

Di fronte avevo mensole color ebano piene di oggetti pregiati: una teiera d’argento e altri souvenir di luoghi e di esperienze da immaginare. Sembrava un salotto e un po’ lo era il nuovo locale, arredato imitando la villa in Venezuela di un viaggiatore vissuto all’inizio del secolo scorso (del quale Aldo non mi aveva rivelato il nome), un uomo in cerca di avventure da collezionare sotto forma di arte e ricordi. Ascoltando il racconto dell’ospite salottiero e sollevando lo sguardo avevo notato una vegetazione pensile che mi aveva catapultata lontana da Roma, immersa in una foresta dove forse ero stata in un tempo passato, o forse l’avevo solo visitata in sogno.

L’atmosfera elegante degli arredi mi aveva fatto pensare alla cabina di comando di un veliero come quel Beagle del capitano Fitzroy che, a soli ventisei anni, invitò Darwin ad accompagnarlo in una spedizione verso l’America Latina e le isole Galapagos. Il viaggio si prospettava lungo e solitario e l’etichetta di bordo nell’era Vittoriana imponeva che il capitano non socializzasse con persone non del suo rango. Così Darwin salì a bordo e intraprese un viaggio che lo condusse alla sua rivoluzione copernicana, a partire dai suoi studi sulle diverse specie di fringuelli delle varie isole.

Il cambiamento di prospettiva al cuore de “L’origine delle specie” di Darwin, il punto focale della sua rivoluzione è un concetto in fondo semplice: non esistono specie migliori, esistono specie più adatte. Dire migliore presuppone che l’evoluzione della vita miri a un obiettivo, dal quale poter analizzare e raffrontare dei risultati. Ma l’unico scopo della vita è mantenere se stessa e quindi l’adattamento è il vero motore dell’evoluzione. Questa visione elimina alla radice la possibilità di un pensiero razzista, perché svela come sia insensato caratterizzare alcuni individui come migliori di altri. Ciò è vero sia nell’ambito della specie umana, pensando agli individui e alle loro diversità come a una ricchezza anziché un limite, ma è anche vero se si guarda alla relazione della specie umana con le altre specie. Anche in quel caso il pregiudizio che la nostra specie sia migliore di altre è quello che ha portato e continua a portare ai disastri ecologici della nostra era.

Da pavone a fringuelli, gli uccelli mi conducono a un esemplare unico, in volo nelle librerie italiane: “L’uccello padulo” del titolo del nuovo romanzo di Giovanni Lucchese (AlterEgo Editore). E l’associazione ha a che fare anche con Darwin, seppure in un senso tutto mio. L’uccello del titolo rappresenta il protagonista della storia, un ragazzo di nome Billo, agli antipodi del mio universo e del mio vissuto: un ricchissimo snob, giovane, viziato, drogato e alcolizzato, che non sembra avere altro obiettivo nella vita, se non quello di sballarsi e così facendo autodistruggersi. Il linguaggio non sembrava essermi d’aiuto, per i dialoghi provocatori, al confine con una voluta volgarità, quasi a compensare lo snobismo e l’educazione di facciata di un certo ambiente nobiliare romano: “La droga è una puttana abile e generosa che alla fine ti presenta sempre un conto bello salato. Ti fa divertire, ti illude che nulla di male potrà accaderti finché resterai al suo fianco, ti lascia pensare di essere in grado di gestire la tua euforia e di poterla ripescare dentro di te quando ne avrai bisogno. Col cazzo”, pensa la voce narrante di Billo. Nonostante le resistenze iniziali, qualcosa è scattato in me e mi sono identificata in Billo e nel suo incontro con Mamma Sophie, una trans di San Lorenzo. Il mondo della famiglia di ‘drag queen’ mi ha travolta e trasformata come è successo al protagonista, la cui vera dote è una sensibilità profonda, ben nascosta dagli atteggiamenti che lo fanno apparire snob e superficiale. Al di là dell’apparenza Billo è capace di affrontare la vita senza pregiudizio, senza pensare di essere migliore o peggiore, solo forse più o meno adatto. Nel romanzo, sarà questa sensibilità a salvarlo, consentendogli di riconoscere e intessere legami di valore e non di interesse.

La storia ha tanti strati, ben esemplificati da alcuni paragrafi che raccontano le operazioni di trucco attraverso la stessa voce di Mamma Sophie. “- Ci vuole concentrazione, sempre. Non importa quanti anni sono che lo fai, truccarsi è un’arte che richiede il massimo dell’energia – mi dice senza distogliere lo sguardo dal suo volto riflesso nello specchio. La osservo per qualche istante, incantato dalla sua capacità di armeggiare con creme e pennelli e dalla trasformazione che sta attuando sul suo volto. Con una specie di cerone stick traccia linee sul naso, sulla fronte e sul mento, poi le sfuma con l’aiuto di una spugnetta e la sua faccia inizia a cambiare, i lineamenti si addolciscono, lo sguardo si intensifica. – Mica nasciamo tutte con il viso perfetto – sentenzia, dandomi l’impressione di avermi appena letto nel pensiero. – Sai quante attrici del cinema, star della televisione o addirittura top model sono dei veri cessi, quando si alzano la mattina? – Da bambino amavo dipingere (…) vedere mamma Sophie che si trucca mi fa venire voglia di ricominciare subito”. Il racconto si maschera da una storia di droga, di sesso, uno spaccato su un mondo corrotto dove conta solo l’apparenza, ma in realtà è una storia di legami famigliari, quelli di sangue e quelli che ci scegliamo, quelli di nascita e quelli d’elezione. Parla della possibilità di incontrare l’altro e riconoscersi nell’essere umani, né migliori, né peggiori, solo diversi, nel senso per cui la diversità, e più in generale la biodiversità, è la vera forza propulsiva della vita su questo nostro pianeta. Mentre la scena del trucco si conclude, la risposta di Mamma Sophie a Billo che le chiede il suo vero nome è quello che mi piace conservare di questa storia: “Quelli come te, quando incontrano uno come me, devono subito andare a cercare cosa c’è sotto, qual è il segreto, cosa va rivelato. Come se fossimo degli indovinelli viventi, una serie di strati da togliere uno dopo l’altro per scoprire alla fine chi è la persona che si nasconde sotto la maschera. Ma la verità è che non portiamo nessuna maschera. Siamo proprio così come ci vedi”.
L’autore Lucchese ha la capacità di creare storie dai vari livelli narrativi. Lo aveva già fatto nel suo “Questo sangue non è mio” (Finalista per il Premio Nabokov) e anche nella storia di Billo le possibilità di lettura sono stratificate. La prima maschera è quella di una storia di droga, poi quella di un racconto di formazione e di ricerca di un’identità sessuale, infine quella di un romanzo sui rapporti che nella vita ci scegliamo per evolvere o naufragare. Ma il vero nucleo, sotto tutte le maschere, si rivela essere la storia del rapporto tra un figlio e suo padre, tra un padre e suo figlio. Mi piace pensare che il messaggio sia quello di non dimenticare mai da dove veniamo e chi è nostro padre, di trovare in noi stessi la gratitudine per chi ci ha dato la vita, anche quando si tratta del padre più odiato, perché solo così potremo essere persone libere e capaci di accettare noi stesse.

Ho amato “L’uccello padulo”, di quell’amore che nasce quando meno te lo aspetti, per qualcuno o qualcosa che non avresti mai pensato nemmeno di avvicinare. Così come amo la scrittura di Lucchese, che mi attrae per la profondità dei sentimenti e mi respinge per l’apparente crudezza di linguaggio. Allo stesso tempo però, proprio quel linguaggio lontano anni luce dal mio modo di parlare, mi aiuta ad accedere a parti di me che esistono, anche se occultate e forse troppo soffocate da una certa buona educazione che a volte mi rende libera e amabile, a volte prigioniera e inautentica. Leggere Lucchese è un continuo calare le mie maschere e accorgermi di quanto il pregiudizio sia qualcosa di intrinseco all’essere umano, anche quando pensiamo di non averlo. Ma va combattuto, sempre, e l’unico modo per liberarsene è riconoscerlo, guardarlo in faccia, affrontarlo e mettersi in ascolto di se stessi e degli altri. Nella filosofia buddista, il pregiudizio si combatte riconoscendo la propria buddità e quella di ogni creatura vivente e non vivente, cioè il potenziale illimitato che ognuno ha di essere felice. La nostra vita è lo specchio della vita degli altri e dell’ambiente in cui viviamo. Billo è un nome da uccello, in Toscana sarebbe il tacchino, a Roma vola basso e riuscirà a riconoscere la sua vera natura solo grazie a Mamma Sophie, colei che rappresenta l’amore a prescindere, quello materno, quello di una natura intesa come una grande madre. Mamma Sophie indossa la maschera del travestito ma è solo apparenza perché è lei il personaggio più autentico. Ha attraversato la sofferenza e ha raggiunto lo stato illuminato di una felicità a prescindere, ben rappresentato dall’immagine del Budda sorridente

A proposito di sorrisi e di pavoni, mi trovavo a una festa e l’occhio mi è caduto sullo strano papillon di mio cognato Alessandro. Lui è sempre elegante e ama i cravattini, così mia sorella gliene ha regalato uno speciale composto di piume di pavone, souvenir di un viaggio a Charleston in South Carolina, in compagnia di nostro fratello Michele. Il suo sorriso mentre indossava quell’accessorio più unico che raro, mi ha ricordato la stessa orgogliosa espressione di quando qualche mese prima mi aveva salutata uscendo dalla Nuvola di Fuksas e da Plpl2018, carico di due buste piene zeppe di libri.

Aveva scelto i regali di Natale per noi, libri da dedicarci come ogni anno da almeno quattro lustri. Il libro regalo di Alessandro è una tradizione iniziata da un un gioco che ci propose la prima volta in cui arrivò ospite dei nostri Natali al Casino. Aveva appeso un cartellone gigantesco al muro, sul quale aveva disegnato una scacchiera, o meglio un foglio Excel: in verticale i nomi di ognuno di noi, in orizzontale titoli di libri che aveva esposto su un tavolo. Potevamo guardare i libri, sfogliarli, leggere qualche pagina per farci un’idea di chi sarebbe stato il destinatario e poi mettere una croce cercando di indovinare a quale di noi Alessandro avrebbe destinato quel libro. Il gioco non prevedeva un vincitore, solo la soddisfazione di sfogliare tanti libri, desiderarne uno, pensare con la testa di Alessandro per immaginare quale fossero i suoi criteri nell’assegnazione di letture da lui scelte, e alla fine ricevere comunque il proprio libro, a volte quello desiderato, a volte no, ma se Alessandro lo aveva dedicato e ti aveva scelto un motivo ci doveva essere.

Nei primi anni novanta i libri li sceglieva nella Libreria Paci di Città di Castello, una di quelle isole felici che ancora riesce a mantenere una propria autonomia, una selezione di libri che vanno da quelli scolastici in autunno, ai classici per tutte le stagioni, alle novità editoriali piccole medie e grandi, o a qualche volume di storia locale perché la storia e la memoria sono uno dei biglietti da visita di questo luogo. Ma da quando ha iniziato a frequentare Plpl, la fiera della piccola e media editoria a Roma, Alessandro dedica un pomeriggio ad aggirarsi tra gli stand per la scelta dei regali di Natale. Purtroppo o per fortuna, più si va avanti con gli anni più il tempo ci rincorre e così ormai mio cognato sceglie i libri da un unico catalogo, quello di Mattioli1885, selezionando dalla collana Frontiere o da quella dei Classici del vecchio e nuovo mondo. Il gesto resta sempre quello originale, il contenuto pure, cambia forse l’apparenza, la coda, ma il sorriso di mio cognato che distribuisce le sue scelte letterarie è rimasto lo stesso, con o senza piume di pavone.