Cappello

Cappello

Gennaio 22, 2019 0 Di Marta Cerù

Sono tornata a Milano per il compleanno di mia cugina. Una di quelle ricorrenze che contengono uno zero e che per molti è importante festeggiare, tappe della vita per le quali esprimere quantomeno la gratitudine di esserci arrivati! Erano tanti anni, troppi, dall’ultima volta in Stazione Centrale. Dico troppi perché ho un fratello che vive a Milano, un altro fratello ci ha vissuto prima, durante e appena dopo Expo e, oltre a mia cugina, ho diversi cari amici che ci vivono o ci orbitano attorno, tra i quali la mia compagna di liceo, originaria di Anzio ma emigrata a Milano e talmente radicata che per me è l’esempio della milanese doc.

L’ultimo mio passaggio al Nord è stato prima di Expo, forse per questo ho trovato una città diversa, rinnovata, la stessa posata eleganza di sempre, ma qualche accessorio in più, principalmente uno: un cappello! La parola è piovuta nel mio ombrello in una di quelle rare mattine di sole nordico, mentre passeggiavo con l’amica ritrovata tra le acque di Milano Isola.

Ho fatto un po’ fatica ad afferrarla perché la nuvola dalla quale pioveva non apparteneva al cielo che mi sovrastava, si trovava invece in un cielo disegnato, un cielo fantastico, di un mondo variopinto popolato da esseri di tutte le forme e colori:

acrobati di circo, artisti di strada, domatori di animali, esseri alle prese con uova verdi al bacon, bambini in viaggio a esplorare posti e mondi imprevedibili popolati da creature di carta eppure vere come esseri umani, ospiti di feste di compleanno memorabili e festeggiati alle prese con innumerevoli candeline, ragazzini che mettono su un circo, ‘Sneetches’ con la stella sull’ombellico e Sneetches senza la stella, cose animate e numerate, una madre con 23 figli tutti di nome Dave, ma soprattutto il gatto più famoso dello scorso secolo, non quello con gli stivali, non Gatto Silvestro, ma il Gatto con il Cappello, ovvero “The Cat in the Hat” di Dr Seuss.

Per esplorare il mondo letterario di un’icona americana come questo autore, illustratore e scrittore, consiglio il Seussblog, dove trovare i suoi libri descritti nei dettagli, con tanto di illustrazioni. The “Cat in The Hat” è un personaggio magnifico che entra in casa di due fratellini annoiati in un pomeriggio di solitudine, perché fuori il tempo è brutto e la mamma non c’è, e stravolge la loro giornata presentandosi come il famoso Gatto col Cappello, che promette divertimento assicurato. Accolto con una certa titubanza, trascina i due bambini in giochi sempre più surreali, sconquassando la casa, il pomeriggio, e poi, come è arrivato, li saluta togliendosi il cappello rosso e se ne va dalla porta d’ingresso, non prima di aver rimesso a posto tutta la casa.

Potrebbe, la storia ideata da una delle icone americane nel mondo della letteratura per l’infanzia, avere un senso se il gatto non avesse il suo cappello bianco e rosso a tuba alta e stretta (quasi più alta della sua statura felina)? Non ho la risposta ma adoro i cappelli, di ogni forma e colore, li ho sempre amati ed è forse l’unico accessorio al quale non vorrei rinunciare. Per il resto non mi definisco una persona elegante, nel senso della moda, o del fashion, come dicono a Milano! Non seguo le sfilate, le riviste, faccio fatica a fare shopping, mi piacciono gli abiti sobri, a volte anche un po’ dismessi e se qualcuno mi passa vestiti, perché non li usa più, non mi offende affatto ma mi fa un regalo gradito, evitandomi la scelta nel negozio, la prova in quei camerini in cui tutto sembra finto, compresa la mia persona. Preferisco vestirmi in tinta unita, avere un completo blu in inverno e uno verde in estate andrebbe bene, se non per il fatto che le stoffe fiorite le adoro e ogni tanto i colori della primavera rendono l’umore più soave. Il cappello è un ornamento, un vezzo, che mi fa sentire elegante anche con poco addosso. È un distintivo, una protezione, a volte un nascondiglio, una maschera, un segno di allegria o di tristezza, una connotazione emotiva.

Milano è sempre stata una città grigia e piccola, nel mio immaginario. Perfetta per creare rete, fare network (come mi fa notare mio fratello che da fotografo di moda non può prescindere dall’attività di ampliamento della propria rete lavorativa/relazionale o relazionale/lavorativa), è una città ricca, Europea, ma con un’ombra di tristezza: piena durante i lavorativi e vuota nei festivi.

Eppure Expo le ha messo il giusto cappello, quello che ho trovato scoprendo la Milano Isola che mi ha ricordato i mondi di Dr Seuss. Tube d’ottone provenienti da un altrove accolgono le voci e le orecchie di chi vuole parlare o prestare ascolto, spruzzi tipo geyser cittadini provengono da un pavimento ricoperto di acqua radente e attraversato da camminamenti per passeggiare in inverno e ancora meglio rinfrescarsi in estate. Forme cilindriche, sferiche, convesse, concave, guglie verticali, piattaforme orizzontali, vetro e cemento, pietra e specchi riflettono un cielo e lo estendono, anche se è adombrato dal grigiore invernale. Uno dei grattacieli ha un cappello a forma di punta, una stalattite di vetro altissima che quel cielo lo tocca e lo buca.

Un altro grattacielo, il bosco in città o bosco verticale, progettato dall’architetto Stefano Boeri, ha invece alberi integrati all’architettura, pensata perché la natura respiri ancora e ci faccia così respirare, anche nella dimensione ipertecnologica nella quale ci muoviamo.

Mentre camminiamo, io e la mia amica di una vita, recuperiamo tasselli importanti, rimasti non condivisi, in uno di quei rapporti che nascono in adolescenza e resistono al cambiamento, non si sciolgono al sole delle estati e non si cristallizzano nel gelo degli inverni: ci si separa, ci si perde, ci si dimentica di qualche compleanno, e poi, nonostante tutto, ti rivedi e sei sempre tu, con la tua amica di allora, con tutta la bellezza di un legame tra donne che sopravvive all’erosione del tempo.

Mentre parliamo mi appaiono le immagini del libro più bello di Dr Seuss, anche se li adoro talmente tutti che è difficile eleggerne uno. Si intitola “Oh, the places you’ll go” ed è una di quelle storie che sembra per bambini ma che in realtà è per l’animo fanciullo di ognuno di noi. Sono così le storie di questo artista americano, autore di un universo narrativo fantastico che cattura l’immaginazione e ci sprofonda nel senso del viaggio della vita. La storia che mi viene in mente parla di un augurio a un bambino a mettersi in viaggio e visitare luoghi, che siano veri o frutto della fantasia non ha importanza, l’importante e che diventino luoghi dello spirito, perché il viaggio è un cammino verso la conoscenza dell’altro e di noi stessi.

L’augurio “Oh, the places you’ll go!” è un invito a non smettere mai di stupirsi, di cercare le domande per capire, per conoscere. Le illustrazioni sono piene di sentieri che arrivano dove sembra impossibile, di spazi vuoti e pienissimi, di tubi, botole, parasoli, castelli, montagne, colline, compagnie strampalate, stravaganti, stralunate, strane, straniere, stratificate, stranite, stra… eppure compagnie, quando non si è invece soli, in quei momenti di attesa, di mezzi di trasporto che non si sa se arriveranno, di riposo, di uno stato d’animo che non si comprende. Ogni pagina è un posto dove fermarsi, transitare, perdersi o trovarsi, e la Milano Isola, dai cunicoli dorati o dagli ascensori di vetro per salire fino alla luce, mi è sembrata uno di quei luoghi in stile ‘seussiano’!

Mi è piaciuto il cappello di questa Milano che conosco e non riconosco. E mentre penso a Dr Seuss e al suo gatto con il cappello a cilindro, quel libro letto centinaia di volte ai miei bambini piccoli e ora parte di un passato di letture insieme che mi manca terribilmente, la mia amica risponde al telefono a sua figlia, una bimba anche lei un tempo, che ho quasi visto nascere, e che ora è una giovane donna. La immagino pratica e creativa allo stesso tempo, forse perché ha quasi il mio nome, una Marta moderna, più piccola e più moderna, che parla in viva voce e dice: “Devo fare un cappello. E io scoppio a ridere e penso, ecco la parola, grazie del dono cara Martina, non ti vedo ma ti abbraccio, artista dei copricapi.

E così, tra i saluti veloci perché il treno è in partenza, in Seussland come ovunque siamo in transito e non possiamo stare per sempre, abbraccio la mia amica, le dico “abbraccia Martina da parte mia e mandami una foto del suo cappello, e penso a una poesia che rappresenta tutto l’amore per una bambina appena nata e per quello che diventerà. Il poeta che l’ha scritta guarda caso si chiamava Cappello ed è uno di quegli amici che ho incontrato sulla carta, quando ormai non era più di questo universo. La raccolta “Un prato in pendio” (BUR edizioni), è quella più completa e contiene tutte le sue poesie e prose. Pierluigi Cappello scriveva a Chiara, la sua nipotina appena nata, una poesia dal titolo ‘Lettera per una nascita’, pubblicata nella raccolta “Mandate a dire all’imperatore” (Crocetti Editore):

Lettera per una nascita
Scrivo per te parole senza diminutivi
senza nappe né nastri, Chiara.
Resto un uomo di montagna,
aperto alle ferite,
mi piace quando l’azzurro e le pietre si tengono
il suono dei “sí” pronunciati senza condizione,
dei “no” senza margini di dubbio;
penso che le parole rincorrano il silenzio
e che nel tuo odore di stagione buona
nel tuo sguardo piú liscio dei sassi di fiume
esploda l’enigma del “sí” assordante che sei.
Scriverti è facile; e se potessi verserei
la conoscenza tutta intera delle nuvole
la punteggiatura del cosmo
la forza dei sette mari, i sette mari in te
nel bicchiere dei tuoi giorni incorrotti.
Ma non sono che un uomo, e quest’uomo
ti scrive da un tavolo ingombro
e piove, oggi, e anche la pioggia ha le sue beatitudini
sulla casa dalle grondaie rotte
quando quest’uomo ti pensa e fra tutte le parole da scegliere
non sa che l’inciampo nel dire come si resta
e come si preme
nel mistero del giorno nuovo in te
che prima non c’era
adesso c’è.